Una parola per descrivere la politica urbanistica di Milano? Schizofrenica
11 Maggio 2009
La discussione sulla politica urbanistica del Comune di Milano è per larghi tratti schizofrenica. Ogni tanto si presentano alla valutazione pubblica alcune considerazioni generali, successivamente si delineano scelte di inquadramento un po’ più concrete e circostanziate.
Spuntano fuori, poi, temi di discussione ancora più precisi: dove costruire una nuova cittadella della giustizia, dove collocare una nuova città della salute, anzi due nuove città della salute perché c’è anche l’iniziativa del privato. Poi compare l’idea di darsi due stadi di proprietà dei due club cittadini. Ci si lancia inoltre in grandi dibattiti su dove collocare l’Ortomercato esistente. Si parla di trasferire l’ippodromo. Di utilizzare per interventi di vario tipo (verde, abitazioni) le linee ferroviarie dismesse che innervavano tutto il sistema urbano milanese, storicamente finalizzate ad alimentare l’antica ma esuarita vocazione industriale della città. Intanto si discute delle scelte trasportistiche in modo separato da quelle urbanistiche (e anche dall’utilizzo di un’innervatura già esistente che viene considerata solo come un’occasione per più volumetrie edificabili).
L’assessore all’Urbanistica (adesso si chiama Sviluppo urbano) Carlo Masseroli dice spesso cose interessanti. L’idea di ridefinire la città, di recuperando volumetrie nelle aree già urbanizzate e collegate dai trasporti piuttosto che “mangiare” nuovo suolo mi sembra assai ragionevole. Ed è diversa da quella della Roma veltroniana che ha mirato ad allargare la città collegandola a nuovi insediamenti. La scelta romana di accompagnare le nuove costruzioni a nuovi collegamenti trasportistici su ferro non era sbagliata ma lo era sicuramente l’ampliare una città già così estesa, mettendosi a consumare terreno dell’agro romano, a diffondere invece che concentrare gli interventi.
In questo senso le proposte urbanistiche milanesi che consentono anche di recuperare volumetrie (cioè di costruire di più su una stessa area) purché gli interventi siano finalizzati socialmente a dare alloggi a ceti popolari, collegate al proposito di non consumare nuovo terreno, mi pare siano scelte dotate di senso.
Quello che però mi pare proprio manchi sia non solo la regia della discussione, ma anche un’idea precisa di città. Una città sono innanzi tutto la sua cattedrale, i palazzi di “governo”, le sue università, i suoi ospedali, il suo tribunale, il suo carcere e così via. Mentre si studiano modelli astratti di risposta ai bisogni sociali ed economici, si dovrebbe avere anche attenzione ai valori simbolici, quelli che “fanno città”. Il palazzo del tribunale milanese archettonicamente a me piace ma esprime bene lo spirito fascista che lo ha “definito” (e si è visto nel ’92 come lo spirito di un edificio sia una realtà pericolosa). Non è male dunque pensare a una casa del tribunale più democratica. Vorrei però sapere che cosa si mette al suo posto in un luogo così strategico per Milano: le imponenti aule di marmo non potranno certo diventare appartamentini né un ipermercato né un garage.
Naturalmente il deficit di discussione sulle prospettive di Milano nasce dalle carenze della politica, innanzi tutto da quelle del sindaco, dalla mancanza di partiti strutturati, di una cultura che sa pensare la sua città. Negli anni sessanta parte fondamentale dello sviluppo di Milano veniva discusso dal Circolo (poi club) Turati e da quello Puecher (la Casa della Cultura a egemonia comunista preferiva temi più generali). Oggi non c’è più niente di simile. Ma la discussione poteva contare anche su un Corriere della Sera (magnifica la cronaca degli anni Settanta) e su un Giorno (poi anche la Repubblica ha avuto una grande cronaca alla fine degli anni Settanta) che discutevano senza soste della nuova realtà metropolitana, dei nuovi quartieri, delle scelte strategiche.
Per alcune grandi città italiane questo impegno dei quotidiani ha ancora questa funzione: prima che litigasse con Francesco Caltagirone, Walter Veltroni poteva contare sul Messaggero come sede di scambi di idee e di cultura. Sergio Chiamparino ha a sua disposizione la tribuna della Stampa. Massimo Cacciari quella del Gazzettino. Milano ha invece giornali distratti e anche quando amici dell’amministrazione svogliati, che commentano questo o quell’episodio ma non l’idea di città e di sviluppo che si stanno definendo. Tutto ciò nasce da un problema di identità del capoluogo lombardo. E costituisce un grosso problema per la città.