
Dal greenwashing al greenblushing, dura la vita per il manager sostenibile

23 Gennaio 2023
C’eravamo fermati al greenwashing ma è arrivato il greenblushing. Allora ‘famo a capisse’, come dicono a Roma. Il greenwashing è una pratica commerciale scorretta usata dalle grandi aziende per farsi più green di quello che sono. Marketing e comunicazione aziendale ingannevoli, con cui l’impresa cerca di costruirsi un profilo sostenibile sviando i consumatori da attività che sostenibili non sono.
Certo il confine per decifrare cos’è fuorviante nella comunicazione sulla sostenibilità di una azienda è labile. Considerando che viviamo in un mondo complesso, dove non si può dipingere tutto in bianco o nero. Facciamo qualche esempio per capirci. In un interessante paper pubblicato da Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, si cita il caso di scuola di British Petroleum.
Venti anni fa la multinazionale del petrolio cambia nome in BP con il nuovo slogan “Beyond Petroleum”, oltre il petrolio. Afferma che diventerà un colosso delle rinnovabili. Questo, secondo i critici, sarebbe greenwashing, perché la multinazionale britannica ha continuato a fare affari con i combustibili fossili. Chiaro? Mica tanto. Il Guardian in una delle sue inchieste infatti ci spiega che BP ha recentemente stanziato 7,5 miliardi di dollari per i progetti su petrolio e gas. A fronte di una cifra compresa fra 3 e 5 miliardi per l’energia verde. Ripetiamolo insieme, da tre a cinque miliardi di dollari.
Per una multinazionale che ha scelto di andare “Oltre il petrolio” non sono mica noccioline. Del resto si chiama transizione ecologica perché segna il passaggio da una condizione produttiva e di mercato a un’altra. Non si è mai vista una rivoluzione industriale che abbia totalmente e immediatamente soppiantato le tecnologie precedenti. Un altro esempio. Larry Fink, il ceo di BlackRock, il più grande fondo di investimento al mondo.
L’anno scorso Fink scrive una lettera ai suoi azionisti intitolata “The power of capitalism”. La lettera è stata giudicata da molti osservatori una specie di manifesto ESG. Cioè i criteri di sostenibilità ambientale, sociale e di governance che le grandi aziende debbono inserire nel loro “bilancio sociale”. Ma per i critici, ci risiamo, un top manager che scrive questa lettera sulla sostenibilità e poi prende il suo jet privato magari per andare a Davos sta facendo greenwashing.
Ma se Fink non avesse scritto quella lettera agli azionisti? Allora avrebbe fatto “greenblushing”, perché comunque BlackRock è impegnata sul fronte della sostenibilità. Il greenblushing, in altre parole, sarebbe la mancata o scarsa comunicazione da parte di una azienda rispetto alla sostenibilità dei propri prodotti e servizi. Il greenblushing, spiega Ispra, denota una scarsa importanza data dal management aziendale agli obiettivi ESG.
La riluttanza a fornire informazioni accurate e dettagliate sulle politiche aziendali di sostenibilità. La sottovalutazione della rilevanza che gli stakeholders di una azienda attribuiscono alla sostenibilità. Ergo, Fink ha fatto bene a scrivere la sua lettera agli azionisti. Essere sostenibile, del resto, è una questione di reputazione. Insomma come per ogni cosa della vita, l’equilibrio sta nel mezzo. La sfida è connettere capitale e sostenibilità, profitto e nuovi obiettivi ESG/SDGs (i 17 target dello sviluppo sostenibile secondo la Agenda 2030 delle Nazioni Unite).
In ogni caso, tra pandemie, inflazione, caro bolletta. greenblushing e greenwashing, non si può che dire dura la vita del manager sostenibile.