
Acciaio / Atto secondo

10 Dicembre 2022
La questione ambientale dell’Ilva nasce con Monti, prosegue con Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi e arriva fino al governo Meloni. Per dieci anni i governi che hanno guidato il Paese non hanno sciolto il nodo di gordio giudiziario tra inquinamento e produzione dell’acciaio. Bloccando investimenti, lavoro, crescita economica e sviluppo del mezzogiorno.
Per molti è stata una battaglia che andava combattuta fino alla fine. Fino alla sentenza per disastro ambientale, dopo sequestri e confische che diventeranno definitive quando a esprimersi sarà la cassazione. Tutto questo mettendo tra parentesi il fatto che Taranto resta il primo polo siderurgico europeo e uno dei nostri siti produttivi nazionali strategici.
Acciaio e le trattative tra i soci di ADI
Non si capisce allora perché adesso Mittal dovrebbe partecipare alla ricapitalizzazione di ADI. Se ancora non si riesce a dissequestrare gli impianti. Continuando quindi a far lavorare l’azienda con un braccio legato dietro la schiena e lamentandosi poi se la produzione non è quella che era stata preventivata. Con la prospettiva di un cambio di governance nella holding destinato a mandare il socio privato in minoranza e facendo riprendere il controllo all’azionista pubblico.
Non si capisce perché non vengono valorizzati i risultati del management, visto che da quando alla guida c’è la Morselli le emissioni in atmosfera si sono ridotte del quaranta per cento. Rispettando il piano di riconversione ecologica prestabilito. Si tratta di un passo avanti notevole rispetto all’ultima valutazione di impatto ambientale che ancora parlava di rischi residui per la salute dei tarantini.
Un traguardo utile per il dissequestro degli impianti visto che nella congiuntura internazionale sfavorevole in cui siamo piombati il problema è diventato il livello della produzione. La tenuta occupazionale. Il pagamento delle bollette e dei fornitori.
Investimenti nella riconversione ecologica
Lo scorso 15 novembre, prima dell’incontro con il ministro Urso, il presidente di Regione Puglia, Emiliano, ha detto che Taranto non è più disposta a “sacrificarsi” se le acciaierie continueranno a “emettere sostanze nocive per la salute”. Eppure gli investimenti messi in campo da Morselli, come i filtri a manica dei camini, hanno determinato una “riduzione drastica” delle emissioni, dice Ispra, l’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale.
Le dichiarazioni dell’ex magistrato del resto vanno calate nella linea politica seguita dal governatore, “se fosse per me gli impianti sarebbero già chiusi”, ha detto recentemente Emiliano rivolgendosi alle madri di Taranto. Chiudere le acciaierie però sarebbe un colpo micidiale all’economia locale e all’occupazione. Né si può invocare l’acciaio prodotto attraverso l’idrogeno perché in attesa che le profezie di Rifkin si avverino è meglio trovare soluzioni adeguate alla realtà.
La verità è che ci sarebbe bisogno di classi dirigenti capaci di fare i conti con le conseguenze della crisi pandemica, della invasione russa in Ucraina, della guerra energetica, del costo del petrolio e delle materie prime, dello sconquasso nelle supply chain. Invece di evocare lo spettro delle nazionalizzazioni. Scacciato nei giorni scorsi dal ministro Urso, mentre si continua a trattare sulla governance.
La scelta delle classi dirigenti
Il tema alla fine dei conti non è il miliardo in ballo nelle trattative, che sono tanti soldi, certo, e possono rappresentare un collante tra interessi economici e di potere politico divergenti. Bensì il quadro più generale. Cioè il fatto che Acciaierie d’Italia muove qualcosa come venti miliardi all’anno, il valore della manovra fatta a deficit, per intenderci. Per cui la scelta che bisogna fare è decidersi, una buona volta.
Continueremo con la politica degli annunci che va avanti da un decennio e a coltivare spazi politici personalistici? Oppure metteremo imprenditori e manager nelle condizioni di portare risultati, liberandoli dai vincoli giudiziari e sprigionando l’energia del nostro sud. Bisognerà scegliere prima o poi. Anche perché di imprese capaci di operare nel ciclo primario della produzione di acciaio in Italia non è che se ne vedano così tante all’orizzonte. (Fine della seconda puntata, continua)