Afghanistan, cambia la strategia ma l’obiettivo resta sconfiggere i talebani

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Afghanistan, cambia la strategia ma l’obiettivo resta sconfiggere i talebani

19 Settembre 2009

Di fronte a una guerriglia talebana sempre più agguerrita e letale, la NATO cerca di adeguare la propria strategia e raddrizzare le sorti del conflitto in Afghanistan. Già a fine agosto il Comando Alleato della missione ISAF in Afghanistan, nella persona del Generale McChrystal, che è anche a capo di Enduring Freedom, la missione esclusivamente americana, ha diramato le linee guide per le operazioni di counter-insurgency che i comandi militari NATO e USA devono seguire sul terreno.

La nuova strategia messa in campo segna un significativo cambiamento a livello concettuale e operativo dopo sei anni di sforzi nel paese (la NATO ha preso il comando della missione ISAF nel 2003). Un cambiamento che deriva sia dal generale ripensamento della dottrina di counter-insurgency in corso nella comunità militare e strategica americana dopo l’esperienza in Iraq, sia dal forte dibattito che ha avuto luogo negli anni scorsi tra gli alleati su come impostare e condurre le operazioni in Afghanistan.

Il punto di partenza è l’accantonamento della distinzione – e della relativa diatriba – tra operazioni di combattimento, operazioni di stabilizzazione e sforzi di ricostruzione. Il concetto di counter-insurgency implica infatti che l’obiettivo di tutti gli sforzi Alleati, civili e militari, è quello di sottrarre la popolazione locale al controllo dei talebani e guadagnare il loro sostegno per il governo afgano. Solo l’isolamento degli insorti può infatti nel medio periodo porre fine alla guerriglia. Da questo assunto generale derivano diversi imperativi strategici, chiaramente enunciati dalla direttiva del Comando ISAF.

In primo luogo, nella contro-guerriglia proteggere la popolazione civile è più importante che uccidere gli insorti, perché senza il sostegno della popolazione locale la guerriglia dispone di fatto di riserve di combattenti pressoché illimitate. Perciò, i soldati alleati non devono più contare sulla potenza di fuoco fornita ad esempio dall’aviazione, che rischia spesso di fare vittime tra i civili, ma puntare sulla presenza dei soldati afgani e Alleati tra la gente. Questo implica però un aumento dei soldati impiegati, e ciò spiega la decisione di Obama di inviare subito 21.000 truppe aggiuntive, di chiedere rinforzi agli alleati di europei e programmare un ulteriore aumento del contingente americano entro la fine dell’anno. Non a caso, le linee guida di McChrystal iniziano con l’affermazione che “proteggere la popolazione è la nostra missione”.

In secondo luogo, è di primaria importanza per fare terra bruciata intorno alla guerriglia fornire i servizi fondamentali alla popolazione, dall’elettricità all’acqua corrente, e realizzare progetti di sviluppo locali che rispondano alle esigenze delle comunità e diano lavoro ai giovani possibili reclute degli insorti. Infine, la protezione della popolazione consiste anche nel porre un freno agli abusi di potere, all’inefficienza e alla corruzione degli apparati del governo afgano, che minano il consenso vero le autorità di Kabul e rafforzano l’attrattiva della guerriglia.  

L’altro pilastro della nuova dottrina Alleata è la considerazione che solo le forze di sicurezza afgane, esercito e polizia, possono assicurare nel medio-lungo periodo sicurezza e stabilità in Afghanistan. Forze di sicurezza nazionali, se adeguatamente addestrate ed equipaggiate, sono infatti più efficaci e più legittimati dei soldati stranieri nel garantire la sicurezza quotidiana villaggio per villaggio. Inoltre, le forze Alleate non possono rimanere per sempre in Afghanistan in tale quantità e con tali compiti, perché l’opinione pubblica americana ed europea mostra crescente disaffezione per la missione ISAF. Non si tratta di scappare dal conflitto e lasciare di nuovo il paese nelle mani dei Talebani, ma di gettare le basi perché lo stato afgano possa effettivamente provvedere alla sicurezza del paese. Anche qui l’esempio è quello dell’Iraq: man mano che le forze di sicurezza irachene si sono avvicinate alla soglia di 600.000 effettivi è stato possibile ristabilire un controllo capillare del territorio togliendo spazio sia alla violenza settaria che ad atti terroristici e criminali. Il miglioramento delle condizioni di sicurezza a sua volta ha facilitato il processo di state-building e il progressivo ridimensionamento dei compiti e della presenza delle truppe americane. I segnali in questo senso sono incoraggianti in Afghanistan: l’Esercito è passato da 8.000 effettivi nel 2003 a 57.800 nel 2008, per accelerare superando il traguardo degli 91.900 soldati a luglio del 2009.

Una impostazione del genere è di certo più vicina alla visione degli alleati europei, che da anni chiedono una maggiore attenzione alla ricostruzione economica e sociale dell’Afghanistan e un limite all’uso della forza militare. Non a caso, nel vertice NATO di aprile la strategia enunciata da Obama è stata unanimemente fatta propria dall’Alleanza Atlantica. Tuttavia, ci sono almeno due differenze importanti tra quelle che erano le posizioni europee in merito alla conduzione delle operazioni in Afghanistan e quella che è ora la strategia della NATO.

La prima differenza, a livello di contenuto, è che la ricostruzione economica e istituzionale non sostituisce né precede lo stabilimento di adeguate condizioni di sicurezza in Afghanistan, come sostenuto in passato da alcuni alleati europei. I militari devono stare sul terreno, devono uscire dalle basi e pattugliare le strade insieme agli afgani le strade, il loro numero deve essere incrementato e il loro equipaggiamento – elicotteri e veicoli corazzati in primis – deve essere aumentato. In altre parole, i contingenti NATO non devono compiere raid nei villaggi controllati dai talebani, con il rischio di uccidere civili o distruggere case e proprietà, ma insieme alle forze afgane devono esservi costantemente presenti e combattere gli insorti quando è necessario per mantenere il controllo del territorio. E’ quello che stanno facendo comandi come quello inglese e italiano, ed è anche per questo che il numero delle vittime britanniche è cresciuto esponenzialmente questa estate: per la NATO pattugliare un villaggio è molto più rischioso che bombardarlo, ma è anche l’unico modo per avere il sostegno dei locali e nel medio periodo isolare e sconfiggere la guerriglia.

In questo contesto, cade ogni distinzione tra prima linea e retroterra. Come dimostrato anche dall’attentato di giovedì 17 settembre a Kabul in cui sono morti sei italiani, nessuna parte dell’Afghanistan è oggi completamente al sicuro. Di conseguenza, perdono di senso i caveat che alcuni governi europei ancora impongono ai propri militari. Quando gli insorti si spostano rapidamente da una provincia all’altra per compiere attacchi, non ha senso impedire alle proprie truppe di correre in aiuto dei commilitoni attaccati nella provincia vicina come accade al contingente tedesco. Quando lo scopo dei pattugliamenti è mantenere il controllo del territorio per proteggere la popolazione, non ha senso il divieto di sparare per primi sugli insorti imposto al contingente spagnolo.           

La seconda differenza, a livello di implementazione, è che la nuova strategia richiede un rinnovato e duraturo sforzo alleato per avere successo. Rinnovato perché servono più fondi per la ricostruzione, strade e sistemi di irrigazione prima di tutto; più personale civile per lo sviluppo delle istituzioni civili, in primis sistema giudiziario, educativo ed ospedaliero; più addestratori militari per i battaglioni dell’Esercito Nazionale Afgano e per gli ufficiali della polizia; più soldati sul terreno e meno caveat al loro impiego; più mezzi per le forze Alleate e quelle afgane. Caduto l’alibi dell’ostilità a Bush, e alla luce di una differente strategia NATO che accoglie gran parte delle richieste europee, la nuova impostazione di Obama mette gli alleati di fronte alla scelta se passare o no dal dire al fare. Tanto più che l’amministrazione americana ha chiaramente chiesto ai governi europei di contribuire nel modo più consono alle loro risorse e sensibilità: non necessariamente più truppe da combattimento dunque, ma addestratori militari, personale civile, mezzi, fondi. Ogni aspetto è importane nella nuova strategia, e non a caso dei 21.000 rinforzi inviati dagli Stati Uniti 4.000 uomini sono destinati all’addestramento delle forze di sicurezza afgane. Gli Americani già schieravano in Afghanistan 2/3 delle forze straniere presenti, e 1/3 di tutti gli aiuti internazionali all’Afghanistan provengono dagli USA.

La risposta degli alleati europei alla sollecitazione di Obama c’è stata, sebbene inferiore alle aspettative Le truppe non americane sotto comando ISAF sono aumentate dai 32.100 effettivi di aprile ai 34.550 di luglio; è stata creata la NATO Training Mission – Afghanistan per coordinare e incrementare gli sforzi Alleati e dell’UE nell’addestramento della polizia afgana; sono stati stanziati 100 milioni di dollari per equipaggiare le forze di sicurezza afgane; la NATO ha deciso di aumentare gli Operational Mentor and Liason Teams incaricati dell’addestramento dell’esercito afgano da 54 a 91 entro il 2011.

Non ci si aspetta che tali sforzi producano risultati nel breve periodo, anzi il diverso e più massiccio impiego dei soldati NATO sul terreno verosimilmente costa e costerà più vittime nei prossimi mesi. L’impegno non può che essere di lungo periodo perché bisogna dare il tempo alle forze di sicurezza afgane di crescere e ai progetti di sviluppo locale di consolidarsi. Soprattutto, un impegno di lungo periodo serve a dimostrare alla popolazione civile che non saranno abbandonati nelle mani della guerriglia, e che quindi possono scegliere di stare dalla parte del governo centrale per scacciare gli dai propri villaggi e quartieri. La lotta tra NATO e autorità afgane da un lato e insorti dall’altro si gioca su questo, e non a caso McChystal chiude la sua dottrina affermando che sarà la popolazione afgana a decidere chi vincerà.