Futuro, comunità e innovazione

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Futuro, comunità e innovazione

Futuro, comunità e innovazione

11 Giugno 2022

Mette a disagio leggere gli ultimi reportage sulla “company town” di Olivetti a Ivrea. Quella intuizione modernissima di unire capitale, tempo di vita e lavoro, il welfare aziendale con Volponi direttore del personale, tutto questo sembra il relitto di una utopia abbandonata, come ha scritto il New York Times. Imprenditori operai designer e poeti, l’architettura il nuovo urbanesimo l’industria e la tecnologia che fine hanno fatto?

L’astronave che scese a Ivrea negli anni Settanta a cinquanta anni di distanza è un alieno nel contesto produttivo e imprenditoriale che conosciamo. Il lavoro si è sbrindellato insieme alla sua etica. L’alienazione della vecchia fabbrica e degli uffici si è travestita da partitella a calcioballilla negli algidi uffici di qualche big tech della Silicon Valley. L’intuizione degli sperimentatori, paternalismo. Il covid con lo smart working – il lavoro per tenerci a distanza – ha dato il colpo di grazia alla idea di fare impresa facendo comunità.

“La civiltà di un popolo,” diceva Olivetti “si riconosce dal numero, dall’importanza, dall’adeguatezza delle strutture sociali, dalla misura in cui è esaltato e protetto tutto ciò che serve alla cultura, e, in una parola, all’elevamento spirituale e materiale dei nostri figli: ma questo apparato sociale è ancora il privilegio di pochi”. L’apparato sociale è rimasto identico, nell’incapacità culturale delle nostre classi dirigenti di ricostruire una economia delle comunità.

Non si investe sui giovani e sulle famiglie. I sessantenni contano i giorni prima di tirare i remi in barca e andarsene anche loro in qualche paradiso fiscale. L’innovazione una rincorsa all’ultimo prodotto tecnologico per cui vale la pena mettersi in fila alla cassa. Il bello confuso nell’omologazione, la Lettera 22 dietro una teca come se fosse un pezzo da museo. Il mondo della impresa e del lavoro, della cultura e della scienza rinchiusi negli splendidi specialismi che non parlano tra loro. La coesione sociale tanto auspicata da Olivetti è l’ombra di un treno passato velocissimo nel nostro Paese allontanandosi verso un binario morto.

Dobbiamo dire come stanno le cose perché l’ottimismo è sempre stato il punto debole dei progressisti. Le piccole città italiane si impoveriscono, si svuotano, l’inverno demografico avanza. Le metropoli crescono nel disordinato caos della globalizzazione ma al tempo lungo che una visione sociale necessita per realizzarsi si sovrappone il brivido adrenalinico dei bitcoin. Dagli anni Ottanta a oggi Ivrea ha perso un quarto dei suoi residenti e l’età media è quella dei cinquantenni. Negli anni Settanta la Olivetti aveva oltre 70mila dipendenti in giro per il mondo, oggi sono rimasti qualche centinaio.

È quella astronave che bisognerebbe avere il coraggio di riaccendere. Senza sprecare la opportunità unica che viene dal piano nazionale di ripresa e resilienza. Il nostro Paese deve tornare a immaginare per essere di nuovo grande. Chi fa impresa deve ritrovare la via, la strada della crescita. Olivetti era un idealista che voleva tutto: scoperchiare la cappa della burocrazia e delle clientele con il valore delle competenze, mettere al centro la forza vitale della comunità. La company town di Ivrea non è il passato. È ancora il futuro dell’Italia. La semenza che possiamo spargere sul terreno europeo mostrando al resto del mondo che una direzione diversa è stata presa. La direzione dello sviluppo che avevamo trovato e che stupidamente abbiamo perso.