
Guerra e liberalismo, una retrospettiva sul convegno di Magna Carta

20 Marzo 2025
All’inizio del Ventesimo secolo, il liberalismo rimane il principale punto di riferimento politico nelle democrazie occidentali, alimentandosi di un’idea di progresso fondata su libertà, razionalità e sviluppo economico. La Prima Guerra Mondiale travolge queste certezze, lasciando un mondo fragile, disorientato e incapace di arginare il ritorno della politica come scontro frontale tra visioni collettive contrapposte.
Da questa constatazione – che risuona cupa e familiare – ha preso le mosse il convegno La Grande Guerra della Cultura, organizzato lo scorso 22 febbraio dalla Fondazione Magna Carta alla GNAM, nell’ambito della mostra Il tempo del Futurismo.
Il liberalismo italiano del primo Novecento si muove su un crinale instabile, sospeso tra la politica di compromesso giolittiana e l’impeto ideologico di nazionalisti e socialisti, entrambi persuasi che la politica debba infiammare le masse con missioni salvifiche, sebbene in direzioni antitetiche. “Lo scoppio della Grande Guerra trasforma i travagli del liberalismo in una crisi conclamata,” spiega Giovanni Orsina (Luiss), “aprendo una faglia interna tra chi si ostina a tener bassa l’intensità della politica, sperando che il treno del progresso storico riparta, e chi invece – facendo leva a destra sulla nazione, a sinistra sul governo dell’economia – ritiene che soltanto dotando lo Stato di fini collettivi sia possibile salvaguardare lo spazio per il perseguimento di quelli individuali”.
L’antigiolittismo, in particolare, nasce come reazione moralistica al trasformismo, ma con la guerra si irrigidisce in una deriva ideologica: l’uomo di Dronero non convince né la prima generazione di critici – i moralisti come Einaudi, Albertini, Salvemini – né la seconda, “una generazione di antigiolittiani, ‘postumi’, conquistati da un idealismo di prevalente marca gentiliana, pronti a portare fino alle estreme conseguenze gli insegnamenti di quella precedente”, osserva Gaetano Quagliariello (Luiss).
Democrazia e rivoluzione vengono esaltate fino alla “giustificazione della violenza”. Questi elementi definiranno le prospettive dei giovani antifascisti, da Bellieni a Gobetti e Gramsci, protagonisti di percorsi che porteranno alle estreme conseguenze l’eredità delle generazioni precedenti. Anche nella relazione di Domenico Bruni (Università di Siena), il liberalismo appare paralizzato: si tende a credere che “la frattura interventista possa rigenerare la classe dirigente”, ma si finisce per soccombere alla violenza politica rivoluzionaria.
Mentre i liberali si dividono, i cattolici si rafforzano: la nascita del Partito Popolare segna il primo vero esperimento di cattolicesimo politico organizzato. “Una maturazione che non sarà pregiudicata nemmeno dal successivo collasso della democrazia rappresentativa e dall’avvento della dittatura fascista, contribuendo anzi a porre le basi per il protagonismo del secondo dopoguerra”, sottolinea Eugenio Capozzi (Suor Orsola Benincasa).
I socialisti, invece, si smarriscono. Simona Colarizi (La Sapienza) ricorda che, nel 1914, quello italiano è l’unico partito socialista europeo a schierarsi con Lenin contro la guerra. Lo slogan “fare come in Russia” diventa un mantra, ma senza una chiara idea di cosa significhi; i massimalisti, influenzati “dall’anarchismo, dal blanquismo comunitario e dal sindacalismo rivoluzionario”, appaiono “così fragili e disorientati da entrare in contraddizione con se stessi”, fino a rifiutare di aderire all’Internazionale del 1919.
Questo confuso turbinio politico domina anche il mondo della cultura. Lorenzo Benadusi (Università Roma Tre) mostra come la guerra, generando miti, eroi e rituali collettivi, si trasformi in un laboratorio di ingegneria culturale, inaugurando una nuova estetica che porta con sé “l’inevitabile e progressiva brutalizzazione della politica”. Futurismo, Costruttivismo e Bauhaus tentano di ridisegnare la società attraverso arte, industria e tecnologia. “Il futurismo è dominato dall’idea che le macchine, per cambiare la società, debbano trasformare anche l’ambiente,” dice Monica Cioli (Scuola Normale Superiore di Pisa), ma la modernità si rivelerà ben più spietata dei sogni di chi voleva reinventarla.
Marco Gervasoni (Università del Molise) offre un’interpretazione psico-sociologica della crisi intellettuale dell’epoca. A differenza della Francia, prima della guerra, l’Italia non ha un conservatorismo politico strutturato né movimenti reazionari organizzati su larga scala. Negli intellettuali della nuova destra, “l’idea grandiosa di sé si sovrappone a quella di Nazione”, mentre il senso di vuoto alimenta deliri narcisistici, proiettando l’ego su una patria “astratta e ipertrofica”.
Il 1925, infine, è l’anno dei due manifesti di Croce e Gentile, che sintetizzano “due letture diverse e inconciliabili del rapporto fra Risorgimento e fascismo, della storia recente e, naturalmente, del nuovo regime”, chiude il cerchio Alessandra Tarquini (La Sapienza).
Per Gentile, il fascismo è l’erede naturale del Risorgimento; per Croce, invece, rappresenta una frattura con la tradizione nazionale, un tradimento della “fede che da due secoli e mezzo era stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna”.
Il convegno di Magna Carta, arricchito dagli spunti dei coordinatori Maurizio Caprara e Francesco Giorgino, ha evidenziato come le fratture generate dalla Grande Guerra siano rimaste insanabili. Il conflitto mondiale rimescolò le correnti politiche e culturali senza trovare una ricomposizione. E la crisi di fiducia del liberalismo resta una questione aperta.