Il boia di Teheran

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Il boia di Teheran

Il boia di Teheran

11 Dicembre 2022

Teheran – La Repubblica islamica dell’Iran esegue il più alto numero di condanne a morte di qualsiasi altro governo al mondo, scrive Jason Rezaian su Twitter. Come vedremo, questo giornalista ne sa qualcosa del ‘sistema giudiziario’ sciita. La metodologia preferita per ammazzare i condannati è l’impiccagione in pubblica piazza, una pratica intonata al regime medievale andato al potere ormai nel lontano 1979.

Nei giorni scorsi i ‘tribunali’ islamici hanno condannato a morte Mohsen Shekari, il primo giovane iraniano ad essere stato giustiziato da quando è iniziata la rivolta contro il regime per la morte di Mahsa Amini. La ragazza arrestata perché indossava male il velo. Shekari, arrestato anche lui e condannato nel giro di un paio di mesi, senza avvocato e senza appello, è stato giudicato da Abolqasem Salavati. Uno dei ‘giudici’ che ogni mattina a Teheran si lavano le mani nel sangue.

A Teheran c’è un “giudice della morte”

Soprannominato “Il giudice della morte”, secondo United Against Nuclear Iran, Salavati ha emesso 25 condanne a morte nel giro i due anni. Ha condannato 250 imputati a un totale di 1277 anni di carcere e 540 frustate. 229 dei suoi imputati non hanno avuto assistenza legale. 166 hanno goduto di isolamento prolungato in carcere. 104 non hanno mai o quasi mai potuto incontrare i loro familiari. 46 sono stati sottoposti a torture fisiche o psicologiche.

Salavati è uno dei boia dei tribunali rivoluzionari messi in piedi dal padre padrone della moderna dittatura religiosa iraniana, l’ayatollah Ruhollah Khomeini. Quest’ultimo è tanto amato in Iran che i manifestanti il mese scorso hanno dato fuoco alla sua casa museo. Secondo le Ong che seguono il lavoro di questi tribunali, le corti islamiche avrebbero condannato perlomeno 16mila persone nel giro dei primi dieci anni dalla loro istituzione.

Dissidenti politici, attivisti, giornalisti, contrabbandieri e trafficanti di droga veri o presunti subiscono tutti lo stesso trattamento. Salavati in particolare ha processato, condannato e imposto dure condanne a cittadini americani e altri occidentali tenuti in ostaggio dal regime. Ha condannato anche a lunghe pene detentive persone che usano Internet, fumettisti e membri delle minoranze etniche e religiose.

Se questa è la giustizia islamica

Nessuno sa se Abolqasem Salavati sia il suo vero nome, pare che i boia usino degli pseudonimi, né tantomeno se davvero abbia una laurea in giurisprudenza o qualcosa di simile. Del resto non ci vuole la laurea per impiccare qualcuno. Salavati avrebbe prestato servizio nei Basij, i paramilitari delle Guardie Rivoluzionarie islamiche, le due braccia del totalitarismo sciita iraniano.

Nel 2009, Salavati ha condannato complessivamente a circa vent’anni di carcere quattro tra medici e i loro familiari che si occupavano di prevenzione dell’Hiv/Aids. La loro colpa: aver collaborato con una Ong e partecipato a una conferenza medica organizzata dall’Aspen. La conferenza era stata finanziata in parte dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

Come prova del ‘crimine’ Salavati ha usato le confessioni estorte e poi ripudiate dai condannati, possiamo solo immaginare come. Se manca la fantasia, ricordiamo i buchi in cui vengono rinchiusi i prigionieri nel carcere di Evin per mesi o anche anni, magari senza neanche uno straccio di accusa, inshallah.

Per gli interrogatori, sono previste percosse, uso del teaser, minacce di morte a familiari e amici, uso di sostanze psicotrope e allucinogeni oltre al già citato isolamento prolungato. Giacché ci siamo, vengono anche negate cure mediche a malati di cancro o a chi ha problemi cardiaci. Salavati avrebbe minacciato di giustiziare il già citato giornalista iraniano-americano Jason Rezaian ancora prima di processarlo.

A Teheran condannati all’inizio del processo

Salavati si diverte anche a imporre cauzioni milionarie ai prigionieri. Karan Vafadari e Afarin Niasari, altri due ostaggi iraniano-americani, quando hanno provato a farsi rilasciare si sono visti chiedere 13 milioni e mezzo di dollari ognuno. La famiglia di Vafadari ha cercato di pagare la cauzione per Niasari ma il boia ha risposto “se l’avessi voluta libera, non avrei fissato una cauzione così alta”.

Salavati nega l’assistenza legale ai detenuti e pare si intrufoli anche nelle riunioni dei difensori. Tra le altre garanzie degne di un Beccaria, Salavati non informa le vittime – a questo punto conviene chiamarle così – delle accuse a loro carico o delle prove che dovrebbero determinare la condanna. Idem con le traduzioni per i detenuti stranieri. Il primo giorno del processo al medico iraniano-svedese Ahmadreza Djalali, secondo lo stesso Djalali, Salavati ha letto l’accusa dicendo: “La tua condanna è la morte e non cambierà alla fine del processo”.

Salavati è dunque giudice, pm e giuria nello stesso tempo. Alcuni imputati, come l’ostaggio iraniano-britannico Aras Amiri, hanno appreso della loro condanna e delle accuse che gli venivano mosse mentre ascoltavano la tv in cella.

Aridatece Trump

Secondo l’ex Segretario di Stato americano Mike Pompeo, Salavati “è uno strumento dell’oppressione del regime, non un amico imparziale della giustizia”. La Ue e gli Usa hanno sottoposto Salavati a sanzioni economiche per gravi violazioni dei diritti umani. Questo è il sistema giudiziario degli islamofascisti con i quali intratteniamo rapporti diplomatici, con cui negoziamo sul nucleare a Vienna, con i quali giuochiamo a calcio in Qatar e così via.

Quando il presidente Trump ordinò il raid con il drone del 3 gennaio 2020 contro il generale iraniano Soleimani, capo della Forza Quds, grande fu lo sconcerto internazionale. Piovvero critiche da mezzo mondo per l’omicidio mirato targato Usa. Probabilmente erano gli stessi che intrattenendosi a discutere di Salavati direbbero cose di questo tipo. “Beh, quello è il sistema giudiziario di un altro Paese, non il nostro”. Meglio ancora, “ma anche negli Usa c’è la pena di morte!”.

Intanto i funerali di Shekari si sono trasformati in una altra occasione per ribellarsi, visto che i giovani e le donne iraniane non si arrendono. A differenza nostra che temiamo i chierici di Teheran – non sia mai che qualche bottegaio ci faccia un affare di meno – i giovani iraniani non temono Salavati. Il boia di Teheran.