Navalny, le “democrature” e l’Occidente allo specchio
22 Febbraio 2024
La tragica morte in uno sperduto carcere siberiano di Navalny, storico oppositore del neo zar Putin, rimette l’Occidente dinanzi all’ormai storico dilemma: come rapportarsi con le autocrazie, le democrature che si diffondono sempre più ai diversi poli del pianeta? E soprattutto, quali politiche di espansione per impedire che tali germi velenosi si diffondano nelle valli, a volte sperdute, smarrite, dell’Occidente?
La comunità internazionale sta reagendo con decisione all’assassinio di Navalny che rappresenta l’ennesima dimostrazione che i regimi autoritari del nuovo millennio non solo non temono l’indignazione internazionale ma riescono a sopravvivere persino alle sanzioni che – come insegna il caso Russia-Ucraina – non sembrano incidere più di tanto sulla vita dei russi. Ci si chiede come mai l’opinione pubblica russa non esprima una ribellione, palese o silente, verso quel regime. Innanzitutto, occorre rivelare che il concetto di opinione pubblica nelle dittature moderne si declina in maniera del tutto opposto rispetto ai canoni occidentali. Opinione pubblica contempla l’autonomia dei mezzi di informazione, il pluralismo delle idee e delle formazioni politiche, della magistratura, la possibilità di scendere in piazza e dissentire. Pochi e fondamentali criteri che delineano la divisione dei poteri di Montesquieu che sono alla base della società liberale.
Ma il punto è proprio questo. Putin ha teorizzato e sta mettendo in pratica il modello della società illiberale, e considera le società occidentali stanche, amorfe, incapace di difendere i propri valori. E, occorre rilevare che la stanchezza con cui l’opinione pubblica osserva la devastazione dell’Ucraina e la crescente idiosincrasia ad accettare i costi economici dello stop alle relazioni con Mosca testimoniano che lo zar russo coglie uno degli aspetti della “malattia occidentale”.
La democrazia della società liberale nel mondo è una merce sempre più rara. La letteratura sull’inaridimento della sua linfa vitale è sterminata. Per ricordare solo alcuni epigoni, basti ricordare l’insegnamento di Norberto Bobbio che parlava delle “promesse non mantenute della democrazia” e le teorie di Colin Crouch sulla post-democrazia in cui lo scontro “è condotto da gruppi rivali di professionisti, esperti delle tecniche di persuasione”.
Non solo la fine della storia non si è mai manifestata, contrariamente alle previsioni di Fukuyama, ma dopo i trenta anni meravigliosi dal Dopoguerra anni Settanta, le turbolenze sono aumentate a dismisura con la fine dell’ordine del mondo emerso da Yalta, il policentrismo economico – dalla Cina ai paesi del Bric (Brasile, Russia, India, Cina, a cui si sono aggiunti poi altri Paesi), la crisi della concezione dello stile di vita occidentale come unico parametro universale, l’incapacità di governare i processi di finanziarizzazione dell’economia, l’impatto delle tecnologie.ù
La democrazia, quindi, sta rilevando i suoi limiti crescenti a navigare in un mare in tempesta. Un mix di mega-trend che da un lato hanno liberato grandi masse di popoli dal flagello della povertà – grazie al ruolo del mercato e non a quello dello Stato imprenditore – ma dall’altro hanno prodotto quelli che sono definiti gli “esuberi”, gli sconfitti della globalizzazione. Ai quali le democrazie non sempre riescono a dare una risposta positiva. Con la conseguenza che coloro che si ritengono “sconfitti” si buttano nelle braccia dell’autoritario di turno emerso dalla sfera della democrazia in disfacimento.
Le autocrazie e le democrature, caratterizzate dal rituale delle elezioni senza una reale contesa, senza reali oppositori, si diffondono con maggiore frequenza. E insediano la stessa Europa. Basti pensare al rapporto tortuoso dell’Unione Europea con l’Ungheria di Orban. E la crescita nel cuore dell’Europa di partiti di estrema destra che si ispirano ai modelli illiberali, seppure ancora minoritari, rischiano di erodere dall’interno la tenuta democratica delle società liberali.
Un fenomeno crescente analizzato da Orsina in un recente articolo che ha suscitato non poche polemiche. Scrive lo storico, riferendosi al contesto internazionale, ma anche a quello italiano, che “demonizzare” chi si lascia affascinare da populisti di varia risma appare infruttuoso, quasi inutile, perché si tratta di “scontenti, disorientati, preoccupati per il futuro, spesso disperati (..) il loro voto non è una manifestazione antidemocratica, è una richiesta aiuto”. Ecco: il tentativo di “romanizzare i barbari” fa parte della storia. Ma quasi mai è riuscito. Putin è l’incubo dell’occidente e della democrazia, ma anche lo specchio in cui intravede i nostri errori.