
Perché non è il momento dei prepensionamenti

18 Novembre 2022
Non sembra il momento più propizio per i prepensionamenti. Per fronteggiare la guerra energetica iniziata con l’invasione russa della Ucraina, il Governo Meloni ha fissato obiettivi di deficit più alti rispetto a quelli previsti da Draghi. Sia per il 2022 che per il 2023. Una scelta giusta, perché adesso servono misure contro il caro bollette, per sostenere le imprese e le famiglie.
Ma se la priorità è questa, forse vale la pena riflettere su tempi e costi di altre proposte annunciate dal centrodestra in campagna elettorale. Come l’abbassamento della età pensionabile. Questi provvedimenti sono sempre costosi. Al momento la Lega continua a spingere per lo stop alla legge Fornero, che potrebbe rientrare in vigore dal primo gennaio del 2023. Le Fornero prevedeva 67 anni di età e 20 di anzianità contributiva per andare in pensione.
Le modifiche successive che sono state introdotte hanno portato alla situazione attuale con l’uscita anticipata dal mercato del lavoro. 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne. Il Governo per il 2023 sembra orientato a ragionare su Quota 103, con 41 anni di contributi versati e 62 anni di età. Costo della operazione 965 milioni di euro. Sarebbe un’altra soluzione ponte prima di mettere mano a una riforma strutturale della previdenza.
Se invece restasse Quota 102, 61 anni e 41 di contributi, spenderemmo 1,9 miliardi di euro l’anno, il doppio. Il Carroccio però spinge per avviare Quota 41 che, entrando a regime, nei prossimi anni, costerebbe non pochi miliardi di euro. Insomma si continua a ragionare sui criteri di flessibilità in uscita che da un lato soddisfino almeno parzialmente le promesse della coalizione che ha vinto le elezioni e dall’altra non abbiano un impatto troppo forte sui conti pubblici.
La flessibilità però dovrebbe esserci sia in entrata che in uscita ma di un mercato del lavoro più flessibile e competitivo se ne parla tanto senza ottenere grossi risultati. Quando si parla di lavoro, infatti, in Italia si finisce sempre per parlare di pensioni. Il fatto è che tutte le soluzioni ponte per il sistema previdenziale vanno a sbattere con la tenuta del nostro debito pubblico, che resta il macigno più grande per qualsiasi governo si ritrovi a prendere le redini del Paese.
Poi c’è un problema di lungo periodo, vale a dire il fatto che l’Italia insieme a nazioni come la Germania ha prospettive demografiche non proprio rosee. Le culle si svuotano, il numero dei pensionati aumenta.
In linea teorica l’idea circolata dopo la riforma Fornero, usare i prepensionamenti per sostituire lavoratori più anziani con i giovani, non è del tutto sbagliata. Soprattutto per le aziende che hanno bisogno di assumere risorse e competenze nuove, più adatte alla trasformazione tecnologica, ai loro processi di sostenibilità e alla transizione energetica. Nella pratica però fino adesso questo obiettivo di sostituzione generazionale non ha funzionato.
Aumentano i prepensionamenti, più maschi che donne, rispetto a quelle che entrano nel mercato del lavoro. Per il segretario della CGIL Landini, “abbiamo salari bassi, lavori precari e in futuro pensioni da fame. Stiamo bruciando una generazione”. La Cgil però non vuole neppure legare i 41 anni di anzianità previdenziale a una età anagrafica.
Così uno dei rischi per le prossime generazioni sarà proprio quello di avere un sistema previdenziale insostenibile che, per tutelare chi vuole i prepensionamenti oggi, scarica i costi di sistema su domani. Insomma, la guerra che impone a tutti uno sforzo, il caro energia, il debito sempre più elevato che abbiamo e la debole prospettiva di crescita per il prossimo anno, non lasciano molte vie di scampo.
Si può evitare lo scalone Fornero, come lo chiamano in gergo, essere prudenti e flessibili, l’importante è non scivolarci dalle scale.