Quei fondamentali economici che minacciano la stabilità politica dell’Italia

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Quei fondamentali economici che minacciano la stabilità politica dell’Italia

Quei fondamentali economici che minacciano la stabilità politica dell’Italia

04 Ottobre 2023

Il Pil italiano dovrebbe crescere dell’1,2% nel 2023, dell’1,4% nel 2024, dell’1% nel 2025, a fronte di una spesa fatta a deficit dallo Stato del 5,3% nel 2023, 4,3% nel 2024, 3,6% nel 2025, 2,9% nel 2026 e di un debito pubblico al 140,2% del Pil nel 2023 destinato ad attestarsi al 139,6% nel 2026 (tremila miliardi di euro di debito delle amministrazioni pubbliche dello Stato). Ecco, il problema dell’Italia sono i fondamentali, un problema che vale sia per i governi politici sia per quelli tecnici, questi ultimi evocati quasi per esorcizzarli dal presidente Meloni.

E in una congiuntura critica a livello globale, con una guerra in corso, questi fondamentali pesano. Certamente pesano anche le scelte di politica economica costose  prese in passato, un esempio per tutti il superbonus contiano. Misure che, sbagliando, si tende a mettere sullo stesso piatto della bilancia con il rialzo dei tassi deciso dalle Bce, con la piccola differenza che quest’ultimo serve a contenere l’inflazione e a sostenere i consumi.

Dicevamo che il problema è tenere a bada il debito pubblico in una congiuntura economica critica nella quale si trovano Europa e America, con un orizzonte di crescita limitato. Il governo Meloni si è posto giustamente il problema di far quadrare i bilanci nei prossimi anni, sottolineando più volte la necessità di una gestione prudente del debito: un debito sostenibile vuol dire più fiducia da parte dei mercati. Per questo la legge di Bilancio ha un margine stretto, con 16 miliardi trovati a deficit e altri 10 di cui si va in cerca per chiudere la manovra.

Ieri Meloni è intervenuta sulla questione sanità, che è centrale considerando il quadro demografico che abbiamo, un paese sempre più anziano e dove si tende a rimandare la scelta di fare figli. Restano però una serie di dubbi sull’efficienza di un sistema sanitario con venti sanità regionali diverse, come pure sui costi del sistema previdenziale che pesa sul futuro delle prossime generazioni.

Anche sul versante delle privatizzazioni probabilmente si potrebbe fare di più, per drenare risorse utili a ridurre il debito. La vendita dell’ex Alitalia però era già stata messa in cantiere da Draghi. C’è la questione delle quote MPS che restano in capo al governo, bisogna decidere su Tim, e nei mesi scorsi si è parlato di una possibile nazionalizzazione dell’Ilva. Fino adesso, insomma, più che alle privatizzazioni si è pensato a tassare le banche. Queste incertezze si sommano agli editoriali non proprio entusiasti della stampa economica internazionale. Il tutto condito dalle turbolenze sullo spread che ha toccato 200 punti base.

Nei prossimi mesi, arriveranno nell’ordine le decisioni cruciali della Ue sulla riforma del Patto di stabilità, la valutazione della Commissione Europea sul piano per la Legge di Bilancio, i giudizi delle agenzie di rating come Standard & Poor’s, DBRS, Fitch e Moody’s sua salute finanziaria dell’Italia, con un rating medio attuale non proprio rassicurante che si aggira intorno alla tripla B.

In un quadro complessivo di questo genere, le riforme che servono per convincere gli investitori che si fa sul serio sono sempre le stesse. Il Pnrr continua ad essere un’opportunità unica per liberare le energie più vitali della economia italiana. Per massimizzarne l’impatto, il governo dovrebbe dare priorità agli investimenti nei settori ad alto potenziale di crescita, come si è cercato di fare nella energia verde. Concentrando strategicamente le risorse del Pnrr in determinati settori, si possono generare nuovi posti di lavoro, aumentare la produttività e attirare gli investimenti del settore privato.

Dire sì al MES può essere un modo prezioso per garantire la stabilità finanziaria dell’Italia. Attingendo a questo meccanismo, i Paesi europei possono accedere a condizioni di prestito favorevoli nei periodi di difficoltà economica, riducendo la pressione sul bilancio nazionale. Il MES è una rete di sicurezza, insomma. Il mercato del lavoro italiano deve adattarsi maggiormente ai cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi anni, dopo il Covid soprattutto. Invece di rimanere intrappolati in dibattiti divisivi sulle politiche legate al salario minimo, l’attenzione dovrebbe spostarsi sulla creazione di un ambiente favorevole alle imprese e ai lavoratori.

Che fine farà la normativa sullo smart working? È possibile affermare con certezza che siamo entrati in un’epoca di lavoro ibrido e che non si tornerà indietro? Cosa faremo per rendere il lavoro ancora più flessibile? La riduzione del costo del lavoro, una delle strade battute dal governo, va comunque nella direzione giusta. L’Italia deve affrontare una sfida demografica enorme, tra invecchiamento della popolazione e il calo del tasso di natalità: un nuovo welfare aziendale con politiche favorevoli alle famiglie, orientato più verso i servizi, per esempio quelli di assistenza all’infanzia a prezzi accessibili, che non solo sui benefit economici, garantendo un miglior equilibrio tra tempo di vita e di lavoro, in particolare per le donne, sarebbe uno strumento utile a stabilizzare il trend demografico e a generare crescita economica.

Altre ricette le conosciamo da anni, tagliare la burocrazia, semplificare le normative che bloccano gli investimenti, concentrarsi su investimenti pubblici efficaci dal punto di vista dei costi e dei ritorni, la riduzione della pressione fiscale (se ci sarà vera crescita), condizioni più agevoli per attrarre le imprese e aumentare gli investimenti del settore privato, l’innovazione e la concorrenza… Un lungo elenco di cose da fare, dunque, partendo, appunto, dai fondamentali: debito sotto controllo, meno spesa pubblica fatta a deficit, più crescita economica.