Quel che ci resta del Novecento (a parte i dubbi)

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Quel che ci resta del Novecento (a parte i dubbi)

30 Aprile 2008

In otto anni ci siamo bevuti un secolo, o forse giusto la sua semantica. Socialista, comunista e liberale ridotti a significanti di cui è scomparso il significato; ed incombe la scomparsa anche della parola stessa, che questa è stata forse l’ultima volta che a cercare molto bene se ne poteva trovare una qualche traccia sulla scheda elettorale. Per qualcuno è un grande gaudio annunziato, che infine finiscono le ideologie e cominciamo a parlare di cose serie. Però le cose serie di cui non si sarebbe mai parlato si fa fatica a capire quali siano, posto che si faceva politica per fare case, scuole ed ospedali già sessant’anni fa e che andando indietro di centosessanta se non ci fosse stata la fame forse nessuno spettro si sarebbe aggirato per l’Europa. Insomma è bene che finisca l’ideologia, soprattutto se ormai ridotta nel comune sentire alla messa in farsa di tutti i colori dell’arcobaleno. Però sembra quasi che con l’ideologia ci vogliamo bere anche il logos; e con lui la memoria del passaggio in terra delle donne e degli uomini di quell’altro secolo, e dei modi e delle forme del loro aggregarsi, del loro morire e del loro comunque lasciare ai propri figli un mondo diverso e verrebbe da dire meno lacero ed affamato di quello in cui erano nati. Adesso sta diventando che per reclamare rappresentanza politica sia d’obbligo rimuovere il proprio passato. Ma se la Storia anziché essere memoria la rimuove, io alla mia prole cosa racconto?

Forse ha ragione papà. Il problema è che la vita non è breve, ed anzi così lunga da rendere comunque difficile di dare un senso alla memoria. Quand’era giovane i comunisti gli tiravano giù palchi e manifesti, che a lui ed a i suoi sodali non si poteva perdonare l’infamia di avere aggiunto la parola “democratico” alla parola “socialista”. Ha vissuto abbastanza da vedere oggi i figli e nipoti di quei comunisti buttare via ed anzi rimuovere accuratamente la parola “socialista” e tenersi giusto il “democratico”; ed è come se gli stessero buttando via il novecento tutto. Adesso che mi sto facendo anziano anch’io, scopriamo insieme che per chi è cresciuto con un qualche senso del dovere di un’identità è troppo tardi per adattarsi a convivere con un partito/contenitore. Sarà molto moderno, ed anzi molto americano (il che, come avrebbe detto Sordi, è lo stesso). Kennedy lo votarono Wallace e Luther King. Che con Veltroni si candidino Bonino e Binetti è solo un a ripetizione (marxiana?) di quella storia. Appunto.

Non che dall’altra parte funzioni particolarmente meglio, che la parola “liberale” è pronunciabile solo in occasioni rigorosamente private e non a caso qualche mio amico liberista ha dichiarato pubblicamente che non sarebbe nemmanco andato a votare. Però a guardarci dentro li chiameranno anche “programmi”, ma qui un nocciolo ideologico, seppure non da tutti condiviso, forse è sopravvissuto. Il mercato quando è possibile e lo Stato quando è necessario. Sicuri che sia meno “ideologico” del “più Stato meno Mercato” dei tempi d’oro del Manifesto? Poi vi sono i complementi del nocciolo duro. Quel po’ di neoprotezionismo nazionalista contribuito da qualche pezzo di Forza Italia, e che parlando di Cina scavalca l’Europa. La fiducia nelle virtù sociali della spesa pubblica che da sempre sta nel dna di Alleanza Nazionale. Un embrione leghista di modello delle relazioni sindacali che se non è figlio della cogestione o Mitbestimmung ne pare comunque parente. Con buona pace di quelli che pensano o che essendogli più comodo fanno finta di pensare che sia tutto e solo questione di immigrazione e sicurezza.

Nazionalismo protezionista, cogestione, funzione sociale della spesa pubblica. A mescolarli assieme viene fuori qualcosa di non geneticamente ignoto. Difficile all’inizio metterlo a fuoco, perché quella specie la si credeva estinta e comunque i vincitori ne avevano vietato, in uno di quei loro tipici eccessi di vittoria, persino la menzione. A guardarlo bene, infine lo si riconosce. I geni erano già  nella sinistra di Salò. Non si è estinta; e questo cocktail ne è il riconoscibile  discendente naturale. Strano esito, più di sessant’anni dopo. I vincitori di allora che rimuovono il loro passato; ed i rimossi di allora vincitori oggi. Come fossero, per rimozione dell’altro, l’ultimo pezzo di novecento che ci tocca in eredità. Magari anche questo non è estraneo al risultato elettorale. La storia è memoria.

P.S.  La scrittura è del 25 Aprile, e figlia di quel senso di vuoto che il 25 Aprile è sempre più spesso di compagnia a tanti ultracinquantenni. Poi si è votato a Roma. Hanno vinto Alemanno e Zingaretti. Il dubbio è che l’apparenza in entrambi di una qualche identità (e, per carità, non di un’identità “storica”) vi abbia almeno marginalmente contribuito. Teniamoci stretti il dubbio, che oggi è il Primo Maggio.