Il D-day ucraino, la causa democratica e i fantasmi del negoziato 

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Il D-day ucraino, la causa democratica e i fantasmi del negoziato 

Il D-day ucraino, la causa democratica e i fantasmi del negoziato 

15 Maggio 2023

In attesa della controffensiva primaverile della Resistenza ucraina per cui si contano ormai i giorni, affiorano presso le cancellerie occidentali interrogativi scottanti. Il dibattito fra idealismo e realismo rivive fiammante nell’inviluppo diplomatico e militare di un conflitto da cui potrebbe dipendere il contenuto di un ordine internazionale in aperta transizione e il ruolo dell’Europa in tale contesto. Se sulla necessità di fare tutto perché Kiev pervenga a scacciare l’aggressore russo dal Donbass si riscontra una piena convergenza, anche nei riguardi dei rapporti fra USA ed Europa, emergono divergenze sulla pianificazione di una prossima strategia politica occidentale. Quali prospettive è opportuno elaborare per dare seguito politico e diplomatico alla risposta degli ucraini? A quali scenari vale la pena attenersi?

Gli obiettivi di Zelensky e le difficoltà di Putin

Chiarissima sin dapprincipio è la posizione del governo ucraino, condivisa da tutte le autorità diplomatiche dei Paesi del G7: punto di partenza e condizione sine qua non di ogni iniziativa di pace dev’essere e solo può essere il ritiro delle truppe russe da tutti i territori occupati. L’Occidente, dal canto suo, può realisticamente aspettarsi dalle truppe di Zelensky una controffensiva efficace. In un parere raccolto dalla CNN, l’esperto di warfare Franz Stefan Gady sostiene che “fattori intangibili come la sorpresa tattica, la leadership sul campo di battaglia e il morale combattivo saranno probabilmente decisivi nelle prime 24 ore dell’attacco”. Altri analisti evocano il tornante storico impresso dal celeberrimo sbarco alleato in Normandia nella fase apicale della seconda guerra mondiale.

Il momento è particolarmente propizio, per diversi motivi sostanziali: l’offensiva bellica assassina dello Zar – e con essa il sostrato di marcescente determinismo geografico che riempie d’alibi la sua prosecuzione – sembra volgere a una stasi politica e militare. Stando al Kyiv Independent, poi, risulta che anche il regime d’occupazione di Bakhmut sta cominciando a mostrare segni di cedimento: la 72esima brigata delle Forze Armate russe avrebbe lasciato la città già prima del 9 maggio. Le cagnesche intemerate del fondatore della Wagner, Evgeny Prigozhin, e la minaccia, poi sospesa, di disimpegno totale dall’Ucraina della compagnia d’assalto privata sono solo la punta dell’iceberg: non meno di due settimane fa, la stampa internazionale riportava dell’ormai comprovata iniziativa di riportare in servizio i T55, vetusti carri armati di epoca sovietica – lo stesso modello usato per macellare la cittadinanza di Budapest nel 1956, giusto per ricordare i passati impieghi di questi ferrivecchi – di cui molti esemplari sono quiescenti da decenni, per compensare le insufficienze della più recente produzione bellica.

Parigi, Berlino e il fantasma del Peace Summit

Nell’evidenza che dal “longest day“ ucraino potrebbero dipendere le sorti del conflitto, restano d’obbligo alcune cautele suggerite dalla storia. Infatti, non si può escludere, allo stato attuale delle cose, l’eventualità che le aspirazioni di vittoria finale del Presidente ucraino collidano con le posizioni francesi e tedesche, più o meno concordi sull’opportunità di spingere Kiev a un “punto culminante“ che permetta all’Ucraina di negoziare da una posizione di forza, eventualmente supportata da una delegazione di potenze. Peace summit è la parola chiave che ricorre in articoli di Le Monde da cui trapela un forte, e giustificato, scetticismo verso la volontà di Emmanuel Macron – in questo, scarsamente suffragato, in primis dai suoi diplomatici – di accordare ”un ruolo costruttivo“ alla Cina di Xi Jinping nell’eventuale percorso di pace.

Per chi conosce un po’ di storia della politica estera francese, la suggestione caricaturale è evidente: Macron vuol forse giocare al piccolo De Gaulle, dimenticando probabilmente l’istanza politica e valoriale, oltreché il senso della causa nobile perseguita dalla Resistenza ucraina, che pure la Francia continua a supportare, asserendo di non voler costruire alcuna base per futuri negoziati prescindendo dalle volontà del popolo ucraino. Va ricordato, infatti, come la posta in gioco di questa guerra non sia soltanto la sopravvivenza di uno stato sovrano, ma anche (e soprattutto) la tenuta del regime democratico della Repubblica d’Ucraina, la sua libertà di scegliere con chi stare nel mondo di domani e di rivendicare il proprio patrimonio di risorse nazionali e identitarie. Questa è la lezione ultima che la Resistenza sta esportando al mondo intero.

La compattezza europea alla prova della posizione cinese

Benché non tutto, nell’immenso universo delle relazioni internazionali, possa essere risolto nella dicotomia fra democrazia e autocrazia, perorare la causa di un negoziato chiamando a rapporto un regime comunista malato di assertività non è probabilmente un modo di onorare quello per cui gli ucraini si stanno battendo. Il tutto, naturalmente, al netto dei rapporti altalenanti di simpatia e antipatia che intercorrono fra la Cina di Xi e la Russia di Vladimir Putin. La politica estera cinese, infatti, non ha mai brillato per sensibilità a valori che non siano i suoi, sin dai tempi di Mao. Ciò spiega anche in via ipotetica la non sorprendente scarsa fiducia degli ucraini nei confronti delle iniziative di pace cinesi di cui tanto si è parlato.

La Crimea, poi, non appare troppo dissimile da Alsazia e Lorena, su cui la République ha costruito almeno 50 anni di accesa diplomazia anti-germanica anche in tempi di pace. Diversi mesi fa, fu lo stesso Presidente francese a ricordarlo. L’ipotesi di una riconquista da parte delle truppe di Kiev, spesso addotta come antitesi della via diplomatica e ”simbolo“ della vittoria totale, ancorché militarmente difficoltosa, non ha nulla di scandaloso. Solo il popolo ucraino e chi lo rappresenta potranno esprimersi in merito. 

L’istituto delle conferenze di pace, antesignano dei Peace summit oggi tanto sbandierati, ha trascorsi gloriosi, ma è storicamente ancorato – almeno nei suoi successi – a una fase esistenziale della società internazionale nella quale dell’odierna eterogeneità politica non v’era la minima traccia. Se l’attivismo diplomatico di Macron dovesse in un qualche modo concorrere a isolare un paese leader in Europa quale la Francia, frammentare la compattezza dei paesi occidentali e la fiducia degli ucraini in essi, il danno sarebbe esponenziale. Il timore è molto diffuso in diversi settori della diplomazia e dell’arco politico britannici, ma non solo.

Di chi i fidano i cittadini dell’Ucraina?

Secondo i più recenti sondaggi, figurano Polonia, Regno Unito e Stati Uniti fra i paesi cui la popolazione d’Ucraina, ancora quotidianamente martoriata dai bombardamenti a tappeto dello Zar, riserva maggiore fiducia. La prima uscirà inevitabilmente rafforzata da questa crisi di livello internazionale.

Generoso partner atlantico, la Polonia si è rivelata molto più matura di quanto certe polemiche sguaiate avessero mediocremente sostenuto. Quanto alla collocazione del Regno Unito, democrazia maggioritaria per antonomasia, non si rendono necessari dubbi di sorta: la special relationship occidentale è salda ed è forse l’unico aspetto salvabile della politica di un paese che, dal post-Brexit, naviga a vista.

Gli Stati Uniti d’America, invece, si preparano ad affrontare una campagna elettorale più combattiva che mai. Non sono ancora chiari né i candidati né la misura in cui i dossier esteri critici e la guerra in Ucraina influiranno sulla detta campagna, ma già la presenza in gioco di Donald Trump lascia intuire il rischio di un retrenchment (ovvero di una selezione maggiore, e meno ”europea“ degli impegni internazionali) in caso di una non riconferma di Biden. In questo si intuiscono le ragioni strategiche del potenziamento del sostegno alla Resistenza ucraina avviato all’amministrazione americana. L’accelerazione di una vittoria dell’Ucraina, dal punto di vista degli interessi degli USA, ad ogni modo prima della fine dell’anno, è quanto mai importante.

L’Ucraina esporta la democrazia in Europa

L’Occidente si è trovato e si troverà a fare i conti, negli anni a venire, con un ritorno in auge di autoritarismi di colori politici contrapposti, spesso post-ideologici e anche – purtroppo – di spalle larghe. Metterlo in chiaro non implica di ”fare la guerra a mezzo mondo“, come qualche cattivo maestro prova a sentenziare, ma di prendere atto di uno stato delle cose: il mondo unipolare degli anni Novanta sembra già consegnato al passato. I tentativi di esportazione della democrazia e di regime change hanno avuto esiti contrastanti: a missioni di cui è opportuno dirsi orgogliosi (KFOR in Kosovo, 1999) si sono alternate iniziative che magari hanno colto nel segno un primo obiettivo – eliminare il nemico – mancando l’obiettivo di stabilizzazione (Iraq e Libia) proprio perché arrivate a frantumare la rudimentale struttura civile e militare di paesi che Stati non potevano neanche dirsi.

L’Ucraina sta, oggi ancora, battendosi per difendere non solo la propria sovranità, ma la propria sopravvivenza come Stato, Nazione civile e regime democratico, senza che una sola forza militare occidentale abbia messo piede su quel territorio. Il sistema regionale euro-orientale è, oggi, minacciato nella sua interezza da un discorso aggressivo che avrebbe leso il diritto internazionale di Vestfalia, per non parlare di quello multilaterale odierno e dei suoi limiti. Un giro di telefonate val bene l’impresa ucraina? Quanto ha senso scommettere su questa prospettiva, tenuto conto del bruciante incanto che essa rischia di smascherare? Il negoziato e l’intercessione hanno davvero i margini di efficacia necessari a conseguire una pace giusta?