Ai confini fra Etica, Geopolitica e Comunicazione (seconda parte)

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Ai confini fra Etica, Geopolitica e Comunicazione (seconda parte)

16 Ottobre 2010

Talvolta anche le singole battaglie di un conflitto hanno bisogno di un “casus belli” (o casus pugnae, ma la sostanza non cambia): è il caso, nella seconda guerra mondiale, del bombardamento di Montecassino del 1944. All’inizio del 1944 Montecassino si trova nel bel mezzo della linea difensiva “Gustav”. Questa linea di resistenza agli alleati che provengono dal sud dell’Italia si snoda per circa 120 km tagliando la penisola dal Mar Tirreno all’Adriatico. Il terreno, già impervio di per sé a causa di burroni e scarpate, viene reso ancor più ostico dall’organizzazione Todt, che valorizza le asperità del terreno costruendo postazioni, fortini, ricoveri, osservatori e campi minati. Nulla a che vedere con la linea Maginot, eppure molto più difficile da superare. Il nodo cardine di tutta la difesa è Montecassino con la sua antica abbazia benedettina medievale, da cui si può dominare tutta la situazione. Per accedere alla pianura Pontina agli alleati non rimane altra scelta che conquistare quella posizione, e per farlo vi sferrano contro poderosi attacchi, senza ottenere nulla se non migliaia di morti.

I Tedeschi sono agli ordini del generale Frido von Senger und Etterlin, che non solo è una persona in possesso di una profonda cultura umanistica, ma è anche un terziario francescano, ragion per cui non soltanto non ha mai permesso ai suoi soldati di fortificare il convento, ma non ha mai consentito loro nemmeno di entrarvi. Anzi, Senger ha fatto di più: ha fatto mettere in salvo, trasportandoli in Vaticano, i settantamila preziosissimi volumi dell’antica biblioteca e tutte le opere d’arte, usando automezzi tedeschi. Così facendo ha sottratto capacità al suo strumento militare ma ha messo in salvo un tesoro inestimabile della civiltà.

Chi di quel valore inestimabile non sa cosa farsene, invece, sono gli aerei che a varie ondate scaricano sull’abbazia migliaia di tonnellate di bombe, che il 15 febbraio riducono il convento, in tre ore, ad un ammasso di rovine uccidendo anche molti civili inermi che vi si erano rifugiati nell’errata presunzione che quel luogo di culto non sarebbe stato profanato. Solo dopo il bombardamento i paracadutisti tedeschi si piazzano fra le rovine, entrando là dove non erano entrati mai. A questo punto i bombardamenti rendono Montecassino ancora più imprendibile di prima, e a nulla valgono gli attacchi frontali di interi reparti indiani che si fanno massacrare.

Per “rimediare”, il 15 marzo si ricorre ad un ulteriore bombardamento: uno sciame di 500 bombardieri fa cadere sulla città di Cassino mille tonnellate di bombe, seguite da un bombardamento di artiglieria durato otto ore. Nella convinzione che non vi sia rimasta anima viva, stavolta tocca ai Neozelandesi farsi massacrare dai “Diavoli Verdi” tedeschi, che avevano resistito sotto le macerie ed erano sopravvissuti all’immane bombardamento. Ora i ruderi della città non solo favoriscono il difensore più di prima, ma risultano anche impercorribili ai mezzi corazzati. Solo il successivo 11 maggio gli alleati riusciranno a superare la linea Gustav e a ricongiungersi con le truppe sbarcate ad Anzio.

Ma il bombardamento di Montecassino non fu un crimine di guerra insuperato: un anno dopo, a Dresda, gli alleati sapranno superare se stessi e chiunque altro.

Il 13 febbraio del 1945, quando mancavano meno di tre mesi alla fine della seconda guerra mondiale in Europa, gli aerei angloamericani effettuarono il più sanguinoso, il più perverso, il più insensato, il più inutile ed il più terroristico bombardamento della storia, e non solo della storia fino a quel giorno, ma anche di quella futura: distrussero Dresda e uccisero tutti i suoi abitanti in una sola notte spaventosa.

La mattanza scientifica fu programmata con perversa determinazione in sei fasi, ognuna propedeutica alla successiva, in cui sarebbero stati usati diversi tipi di munizionamento in base agli effetti micidiali che si volevano ottenere. Quale punizione fu riservata ai criminali di guerra che pianificarono questo crimine di guerra e lo condussero a termine? Al maresciallo dell’aria Arthur Harris, comandante dell’operazione, fu solennemente conferito il titolo di “Sir” e, circa un anno dopo, Americani e Inglesi stavano tutti seduti a Norimberga, ma dalla parte dei vincitori, per giudicare i Tedeschi di “crimini di guerra”.

Con la fine del secondo conflitto mondiale non finirono i casus belli falsi. Ne abbiamo un esempio nella Crisi di Suez del 1956. A luglio il presidente egiziano Nasser decideva di nazionalizzare la compagnia del canale di Suez allo scopo di aumentare i guadagni per finanziare la costruzione della diga di Assuan, sul Nilo. In precedenza, Statunitensi e Britannici avevano accettato di aiutare a pagare questo progetto, ma cancellarono il loro appoggio dopo che l’Egitto aveva acquistato carri armati dalla Cecoslovacchia e riconosciuto la Cina comunista. Regno Unito e Francia, che si vedevano colpiti negli interessi più sensibili (il petrolio di cui avevano estremo bisogno passava proprio da Suez) decisero un intervento militare senza avvisare preventivamente gli USA e gli altri alleati e decisero di riprendere con la forza quel collegamento strategico fra Mediterraneo e Mar Rosso. Risolute a portare guerra all’Egitto, le due potenze occidentali avevano però bisogno di un espediente convincente, in altre parole bisognava inventare una bugia.

Gli Inglesi non volevano perdere il controllo sul canale e i Francesi intendevano punire l’Egitto per il suo sostegno ai ribelli algerini, così si accordarono con Israele e ordirono un piano segreto a tre con gli Israeliani. Gli Israeliani avrebbero attaccato gli Egiziani nella penisola del Sinai, poi Francesi e Inglesi avrebbero intimato ai due contendenti di ritirarsi, gli Israeliani avrebbero ottemperato e l’Egitto no e pertanto quest’ultimo sarebbe stato attaccato con una ragione plausibile. E così avvenne. Gli Israeliani, tra la sorpresa vera di tutto il mondo e quella finta di Londra e Parigi, il 29 ottobre sbaragliarono gli avversari egiziani nella penisola del Sinai.

Creato il casus belli, il 31 ottobre gli anglofrancesi intervennero con una rapidità che in realtà non dovrebbe sorprendere alcuno, dato che ventimila riservisti erano già stati richiamati fin da agosto e schierati nelle basi britanniche a Malta e Cipro.

Nei giorni successivi le cose andarono proprio come previsto: gli Israeliani attaccarono nel Sinai giungendo fino a ridosso del canale di Suez, Francesi e Inglesi intimarono ai due contendenti di ritirarsi a 10 miglia (16 chilometri) dal canale, gli Israeliani acconsentirono subito, gli Egiziani non vollero saperne e di conseguenza gli Anglo-francesi occuparono militarmente il canale.

I Sovietici ne approfittarono per invadere l’Ungheria, l’ONU non seppe fare altro che porre la questione all’ordine del giorno, mentre la NATO non fece nemmeno quello.

Gli USA, irritati per l’inopinata iniziativa anglofrancese a Suez, minacciavano Londra di vendere le riserve statunitensi della sterlina, cosa che avrebbe fatto collassare l’economia britannica entro una settimana. Gli Inglesi, di fronte a quella prospettiva, obbedirono e ritirarono il contingente. I Francesi, che erano sotto comando britannico, non poterono fare altro che seguire gli Inglesi.

E così non solo le truppe vennero ritirate, ma cadde anche il governo inglese e Francia e Gran Bretagna dovettero abbandonare qualsiasi sogno di agire sulla scena mondiale, da allora in poi, come grandi potenze.

E arriviamo alla Guerra del Vietnam. Il casus belli fu l’incidente del Tonkino, nel 1964. Fin dal 10 maggio 1955 il Vietnam del sud chiese ufficialmente l’assistenza militare degli Stati Uniti, che la offersero volentieri non solo a quel Paese ma anche alla Cambogia. Avvenne così che i militari francesi e quelli americani si incrociarono: mentre i francesi se ne andavano, venne istituito un Military Assistance Advisory Group, MAAG nel Sud il 28 aprile 1956.

Le due parti vietnamite in lotta non avevano alcuna intenzione di arrivare ad un accordo di pace; anzi, nel gennaio 1958 i guerriglieri comunisti attaccarono una piantagione a nord di Saigon e nel febbraio 1959 fu formato al sud un partito comunista clandestino, quale emanazione del partito Lao Dong di Ho Chi Minh.

Subito dopo, nel maggio del 1959, cominciarono ad affluire i primi consiglieri militari americani ed alcuni furono anche feriti durante un attacco dei guerriglieri a Bien Hoa. E intanto il MAAG cresceva: il 5 maggio 1960 contava 685 uomini.

A Saigon, capitale del sud, andò al potere Ngo Dinh Diem appoggiato dagli Americani e dai loro ingenti aiuti militari ma la guerriglia non si placò; al contrario, nel 1960 si intensificò con la creazione del fronte di liberazione del Vietnam del sud.

L’anno successivo fu l’anno di Kennedy, che il 20 gennaio 1961 fu eletto Presidente degli USA e nominò Robert Mc Namara Segretario alla difesa. I due diedero impulso all’impegno statunitense in Vietnam: Kennedy era un sostenitore dei “berretti verdi” e delle forze speciali e Mc Namara era convinto che i vietcong fossero quattro gatti fanatici, senza sostegno da parte della popolazione, e non sapeva di sbagliarsi.

Fu escalation di presenza militare ma non si trattava ancora di un intervento ufficiale americano in guerra. Per vedere gli USA entrare in campo in grande stile bisogna aspettare il 2 agosto del 1964, quando un cacciatorpediniere americano, il “USS Maddox” (DD731), venne attaccato nel Golfo del Tonchino, in acque internazionali, da tre cannoniere nordvietnamite e si salvò grazie all’intervento degli aerei americani, quattro caccia F-8E Crusader che si alzarono in volo dalla portaerei “USS Ticonderoga” e che spararono i primi colpi ufficiali americani nella guerra del Vietnam.

Il Presidente statunitense Lindon B. Johnson, successore di John F. Kennedy alla Casa Bianca, davanti al Congresso americano sostenne che si trattò di una provocazione ingiustificata ed ottenne l’autorizzazione ad intervenire militarmente contro il Vietnam del Nord. Ciò che Johnson omise di dire fu che il “Maddox” era in realtà una nave spia, attrezzata per sorvegliare con le sue apparecchiature elettroniche le coste nordvietnamite. La guerra del Vietnam, secondo calcoli americani, è costata solo nei suoi ultimi quindici anni più di 7.300.000 vittime, fra morti e feriti.

E anche le successive guerre nella penisola indocinese, internazionali o infranazionali che fossero, possono essere considerate quali effetti di una bugia del 1964, o nella migliore delle ipotesi di una mezza verità, quella dell’incrociatore “Maddox“.

Uno dei più eclatanti casus belli falsi fu quello della Guerra del Golfo del 2003, quella per le WMD di Saddam. Nel 1991 il Presidente americano George Bush cercò di estromettere dal potere il Presidente irakeno Saddam Hussein dopo l’invasione irakena del Kuwait. Riuscì a scacciare gli Irakeni dal Kuwait, ma il dittatore di Baghdad rimase al suo posto. Nei dieci anni successivi la comunità internazionale si accontentò di imporgli sanzioni economiche che misero in ginocchio il popolo ma non ebbero alcun effetto sul tenore di vita di Saddam.

Nel 2002 il Presidente americano George W. Bush figlio è fermamente intenzionato a terminare il lavoro incompiuto del padre e inizia ad ammassare truppe attorno all’Iraq con il pretesto che il regime di Baghdad non obbedisce alle risoluzioni dell’ONU e possiede (forse) armi di distruzione di massa.

Nel frattempo Hans Blix, capo di un team internazionale di ispettori, e Mohamed El Baradei, presidente dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica, cercano di portare a termine il proprio lavoro. Ma Bush e Blair li mettono nelle condizioni peggiori per operare: se gli ispettori non trovano le armi, è perché non sono capaci di trovarle; se gli Irakeni non esibiscono le armi, è perché le nascondono. Tertium non datur. E il “tertium”, che poi è la realtà, è che le armi proibite non esistono.

Non tutti accettano l’interventismo ad ogni costo degli Angloamericani. Il 17 marzo 2003 il Ministro degli esteri inglese Robin Cook si dimette per protesta, dichiarando: “L’Iraq non ha sicuramente armi di distruzione di massa nel senso più comune del termine: non possiede cioè ordigni che possano essere lanciati contro un bersaglio urbano importante”. Il 3 aprile 2004 Colin Powell, lo stesso che portò all’ONU le “prove” della colpevolezza irakena, ammette: “le informazioni su cui basammo la guerra all’Iraq non erano accurate”. Il Colonnello Lawrence Wilkerson, capo di stato maggiore di Powell dal 2002 al 2005, arrivò a dire “questa vicenda è stata il punto più basso che ho toccato in vita mia”.

In conclusione, i casus belli di quasi tutte le guerre dell’ultimo secolo e mezzo erano falsi, il che è una triste realtà. Ma tutte le cose negative racchiudono in sé un’opportunità. Questo fatto, in particolare, può indurci ad individuare un nuovo metodo di prevenzione delle crisi. La comunità internazionale dovrebbe focalizzare la propria attenzione sulla veridicità dei casus belli prima ancora dell’inizio delle ostilità, smascherare le reali intenzioni dei “guerrafondai” e metterli in condizione di non nuocere. Può sembrare una “missione impossibile” ma in realtà non lo è. Infatti questa missione potrebbe venire facilitata, oggigiorno, dalle moderne tecnologie che spaziano dai satelliti artificiali ai mass media, dai videotelefonini ai social networks.

Per smascherare il falso casus belli della guerra ispano-americana ci sono voluti 100 anni esatti, tanti quanti ne sono passati fra l’incidente del “Maine” nel 1898 e il ritrovamento di un certo rapporto negli archivi statunitensi nel 1998. Ma nei conflitti successivi, proprio grazie allo sviluppo delle tecnologie e all’espandersi della globalizzazione e della conseguente trasparenza, siamo passati dai secoli ai decenni, agli anni, ai mesi e alle settimane, finchè ai tempi dell’ultima guerra del Golfo l’unità di misura cambiò dalle settimane ai giorni. In altre parole, nascondere le menzogne che stanno alla base dei casus belli oggi è sempre più difficile. Contemporaneamente, smascherare quelle menzogne diventa sempre più facile.

Ovviamente tutto questo ha un limite, che non è trascurabile: la comunità internazionale (in altre parole l’ONU) è monopolizzata proprio da quegli stessi Paesi che negli ultimi 150 anni hanno scatenato guerre grazie a casus belli falsi.

Ma in alternativa all’ONU, potrebbe farsi carico della questione, ad esempio, il mondo accademico. Si potrebbero creare sinergie, sotto forma di Centri studi o di Osservatori permanenti per monitorare le varie aree di crisi e i relativi casus belli fin dal loro nascere, rendendoli palesi in maniera trasparente all’opinione pubblica mondiale. L’impegno si profila delicato e gravoso, ma la posta in palio vale la pena: rendere impossibili i conflitti, disinnescandoli fin da prima del loro inizio.

© Giornale di Bioetica