All’Italia non manca una politica della cultura ma una cultura politica
12 Agosto 2009
di Daniela Coli
Il problema del nostro paese non è tanto l’assenza di una politica della cultura, come scrive Galli della Loggia nell’ultimo editoriale del Corriere, ma di cultura politica. Questo è il vero dramma italiano: siamo pieni di letterati, che discettano di politica, che è dannatamente empirica ed ha una logica ferrea. Abbiamo letterati abili a giocare con le parole, ma non abbiamo scienziati politici come Weber, Schmitt o la scuola di Chicago. Mosca e Pareto li studiano all’estero, non in Italia, dove la star della filosofia del momento, Roberta De Monticelli, scrive sull’ultimo Micromega di avere deciso di iscriversi al partito democratico e di appoggiare Marino, perché in Italia c’è la questione morale.
I filosofi-letterati e storici-letterati, sempre pronti a riempirsi la bocca di “morale” e di “etica”, di politica culturale ne hanno fatta anche troppa. Nella prima repubblica, ogni partito e partitino aveva la propria e certo era una pacchia per i fondi, che servono principalmente per fare convegni per decidere le cordate per i concorsi, pubblicare volumoni illeggibili, che nessun editore pubblicherebbe mai a proprie spese, e per dare borse di studio ai propri allievi. Nella prima repubblica avremmo festeggiato l’unità d’Italia con un’orgia di studi di ogni tendenza politica, con tutte le correnti di tutti i partiti e partitini possibili: allegria, fondi per tutti a pioggia, dalle Alpi alla Sicilia! E tutti a pontificare su come fare e rifare gli italiani, secondo le parole d’ordine della corrente del relativo partito o partitino.
In realtà, più di fare o rifare gli italiani, continuando a pensare che siano sufficienti leggi, costituzioni e retorica politica a tenere unita una nazione, occorre rendersi conto che il problema principale delle nazioni europee dal ‘400 all’800 è di poggiare su un centro debole, che tenta di tenere insieme antiche nationes, con lingue e culture diverse. Uno stato assoluto che controlla tutto, a cominciare dalla religione a cui si oppone e tenta di sostituirla con la legge, che invade anche la vita privata. L’Italia, sede della Chiesa cattolica, il simbolo della continuità con la civiltà romana, dopo la fine dell’impero, non sfugge al modello “britannico”, anche se il Piemonte non è la Scozia, né l’Inghilterra, e i Savoia non sono gli Stuart, con i quali la Gran Bretagna ebbe per la prima volta un unico sovrano.
Ai patiti della “questione meridionale” va forse ricordato che la “gloriosa rivoluzione” non fu una polemica su Locke, ma una guerra civile, uno dei motivi principali della quale fu il tentativo di integrare gli scozzesi nell’élite inglese, a cominciare da Giacomo I. Giacomo VI, re di Scozia e figlio di Maria Stuart, succede a Elisabetta Tudor, che ha fatto decapitare sua madre, senza versare una goccia di sangue, con l’arrivo a Londra in mezzo al popolo in festa. L’ascesa al trono inglese di Giacomo I fu un grande capolavoro diplomatico, ma quando il re inizia a dare titoli e rendite agli scozzesi – l’Inghilterra era più ricca della Scozia – il capolavoro diplomatico s’incrina e si inizia a gridare alla corruzione in parlamento e nei sermoni dei pastori. È con Cicerone, riempiendosi la bocca di questione morale, che ci si ammazza per anni nelle isole britanniche. I titoli, le rendite, i fondi: alla fine, una questione di soldi. Ogni nazione ha la sua “questione meridionale”, i britannici si ammazzarono seriamente, poi richiamarono il re e trovarono un accordo, perché erano soli in mezzo all’Atlantico, avevano subito dominazioni straniere, che avevano imposto loro pure la lingua e non volevano ricaderci. Il Sud non è la nostra Vandea, ma dai letterati viene descritto come una terra dannata, culla antropologica di mafia e camorra, diventate un genere letterario di successo, tanto da non esservi quasi distinzione tra reale e virtuale, con Saviano-Montalbano, che vince premi e diventa scrittore sotto scorta.
Dalla fine della prima repubblica i nostri letterati si lamentano della tv, che ha invaso la politica e delle carenze del servizio pubblico televisivo. Repubblica non traduce gli articoli del Times che invoca la chiusura della Bbc come principale emittente del servizio pubblico. La rivoluzione informatica e digitale ha inevitabilmente posto fine al mondo di frequenze limitate, nel quale è nata negli anni ’20 la Bbc, per la quale i brits pagano il canone, come noi per la Rai. Il governo Brown ha risposto alla crisi dei media inglesi suggerendo che il canone finora pagato per la Bbc venga distribuito alla tv private, chiudendo un’era di monopolio del provider Bbc. Repubblica, il giornale principe dell’intellighenzia, si guarda bene dal dare notizia della rivoluzione che il Times sostiene per la Bbc, a cui vuole togliere il diritto del canone, perché da noi il problema principale è proprio il contrario: non toccare il monopolio della Rai e continuare a vivere nell’Italia, dove perfino la tv a colori diventava una “questione morale”. Il ritardo dei nostri letterati sui media, produce anche i lamenti sulla decadenza di accademie, centri culturali come la Treccani e biblioteche nazionali. La decadenza deriva dalla resistenza al nuovo: per consultare il Dizionario biografico degli Italiani occorre recarsi in biblioteca, mentre l’Oxford Dictionary of National Biography è online. In Francia e in Gran Bretagna esiste soltanto una biblioteca nazionale, perché le nazionali sono biblioteche di conservazione e la ricerca si fa nelle biblioteche universitarie specializzate, nelle quali i nuovi dati sono elettronici. A ben vedere, non è di un nuovo Minculpop di cui abbiamo bisogno.