Amici dei nemici: teoria e pratica della politica estera di Obama

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Amici dei nemici: teoria e pratica della politica estera di Obama

27 Marzo 2010

La teoria di Barack Obama è che le politiche di parte sono fonte di conflitti. Non dovrebbero più esistere stati rossi o stati blu. Ogni scelta politica è una scelta falsa, un esempio di un vecchio modo di pensare. Lo stesso vale sullo scenario internazionale. Se gli Stati Uniti prendessero le distanze dai loro alleati e si avvicinassero ai loro avversari, i conflitti si ridurrebbero. Gli USA a quel punto potrebbero fungere da mediatore internazionale piuttosto che da garante dell’ordine globale e da rappresentante del cambiamento politico in senso democratico. L’esempio più recente di queste teorie si riscontra nella nuova antipatia mostrata dall’amministrazione Obama nei confronti della Gran Bretagna riguardo alla controversia in corso tra britannici e Argentina sulle Isole Falkland.

Indagini geologiche indicano la possibilità di ottenere fino a 60 miliardi di barili di petrolio sotto il fondo marino nell’area compresa tra 60 e 100 miglia a nord delle Isole Falkland. Questa possibilità ha indotto a dare il via a delle trivellazioni esplorative all’inizio di febbraio e ha riacceso le tensioni tra Regno Unito e Argentina, che avevano già portato alla guerra delle Falkland del 1982. Un consorzio di imprese inglesi e australiane ha trasportato una piattaforma petrolifera in quell’area. E il presidente dell’Argentina, Cristina Fernandez de Kirchner, autrice di iniziative estremamente impopolari – come il tentativo di tassare le esportazioni agricole e di utilizzare le riserve della banca centrale per colmare parte dell’enorme debito della nazione – ha intuito e prontamente colto l’opportunità di distrarre l’attenzione del popolo.  

Il ministro degli esteri argentino, Jorge Taiana, ha richiesto un incontro con il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, definendo “illegittima” l’esplorazione delle imprese britanniche e pretendendo un dibattito con i funzionari di sua maestà circa la loro rivendicazione di sovranità sulle Falkland. L’Argentina ha annunciato che bloccherà i suoi scambi marittimi con le Isole, che gli argentini chiamano Malvinas.

Il primo ministro Gordon Brown, riferendosi al contingente di mille uomini delle forze britanniche stanziato nelle Falkland, ha avvertito che il Regno Unito non esiterebbe a intervenire nuovamente per difendere i 3000 abitanti dell’isola – nessuno dei quali desidera diventare un cittadino argentino – e per difendere ugualmente il diritto della Gran Bretagna, riconosciuto sul piano internazionale, di effettuare sondaggi petroliferi. Il Times di Londra, lo scorso 24 febbraio, riportava la notizia di un sottomarino che è stato inviato a supportare le navi di superficie della Royal Navy posizionate nelle Falkland.

Sia il Regno Unito che l’Argentina hanno visto diminuire nettamente i propri militari dopo il conflitto di 74 giorni del 1982, vinto in modo decisivo dalla Gran Bretagna. L’Argentina è riuscita a preparare meglio il terreno diplomatico, richiedendo il sostegno di molti degli stati vicini. Ma il Regno Unito possiede ancora supporto logistico e forze navali sufficienti per poter vincere, qualora si arrivi a un nuovo conflitto. E può ancora trarre ulteriore supporto logistico – come fece 28 anni fa – da Gibilterra e Isola dell’Ascensione (diverse centinaia di miglia al di sotto dell’Equatore) nell’oceano Atlantico meridionale.

L’amministrazione Obama ha reagito inizialmente dichiarando la sua neutralità. “Siamo a conoscenza non soltanto dell’attuale situazione, ma anche delle vicende storiche: la nostra posizione rimane comunque neutrale”, ha dichiarato un portavoce del Dipartimento di Stato a fine febbraio. “Gli Stati Uniti riconoscono l’amministrazione de facto sulle isole da parte del Regno Unito, ma non prendono posizione riguardo alla sovranità rivendicata da entrambe le parti.”

All’inizio di marzo, il Segretario di Stato Hillary Clinton ha assunto una posizione differente durante la sua visita a Buenos Aires. Durante una conferenza stampa congiunta il presidente dell’Argentina, profondamente impopolare (un sondaggio della scorsa estate fissava al 28% il suo grado di approvazione), ha insistito sulla necessità che Regno Unito e Argentina intraprendano delle trattative sulle Falkland. Ha quindi fatto appello all’autorità del Comitato delle Nazioni Unite per la Decolonizzazione, un organismo la cui agenda indica tra gli altri “territori che non hanno raggiunto l’autogoverno” American Samoa, Guam e U.S. Virgin Islands. “E noi siamo d’accordo”, è intervenuta la Clinton, nonostante la precedente dichiarazione di neutralità e la continua asserzione da parte del Regno Unito che la sovranità delle Falkland non sia negoziabile. Ma dov’è la neutralità se si appoggia una parte che richiede trattative su una questione che la parte avversa ha definito non negoziabile?

Inoltre la Clinton sembra non aver preso in considerazione l’elemento coloniale della questione. I britannici hanno preso possesso delle isole Falkland quando erano disabitate, una quindicina di anni prima che gli Stati Uniti sconfiggessero il Messico in una guerra iniziata da noi, che ha aggiunto diverse aree abitate, oggi note come Arizona, California, Nevada, Utah, Texas, e parti di New Mexico, Colorado e Wyoming. Tra i possedimenti americani che attualmente rientrano nella lista stilata dal Comitato ONU per la Decolonizzazione rientra Guam, che sta velocemente divenendo la più importante base militare statunitense nel Pacifico occidentale. L’uomo ha abitato Guam per gran parte dell’arco di vita di 5000 anni dei pini che punteggiano quelle terre, da noi strappate con la forza al Messico nel 1848.  Ci sono molte più valide ragioni per “decolonizzare” Guam piuttosto che le Falkland, che erano una colonia di pinguini magellanici, prima di diventare una colonia britannica.

L’amministrazione Obama dovrebbe riflettere attentamente su questo punto. Le decisioni di restituire il busto di Churchill all’ambasciata britannica e di snobbare il primo ministro Brown, non tenendo la tradizionale conferenza stampa subito dopo l’insediamento di Obama dello scorso anno, potrebbero essere archiviate come semplici gesti maldestri. Si potrebbe sostenere lo stesso riguardo ad altri eventi, come l’iniziale riluttanza di Obama a incontrare il Dalai Lama. Ma non lo si può sostenere della rottura degli accordi presi per creare sistemi di difesa con missili balistici statunitensi sul territorio di grandi alleati come la Polonia e la Repubblica Ceca; o riguardo al sostegno dato al presidente dell’Honduras, collega di Hugo Chavez, che ha cercato illegalmente di portare avanti il suo mandato; o ancora riguardo al timore generato in importanti settori amici della società libanese, per la ricerca di un compromesso con la Siria, che rimane implacabilmente ostile agli Stati Uniti.

No. A parte limitate eccezioni come l’Afghanistan e il merito che l’amministrazione ha iniziato a rivendicare per i progressi in Iraq, la politica estera di Obama cerca di abbandonare la tradizionale visione che gli Stati Uniti hanno di sé come forza che agisce per il cambiamento politico democratico, e di rimpiazzarla con l’obiettivo di diventare il principale mediatore internazionale. Secondo i calcoli dell’amministrazione, scaricare gli amici di una volta renderà più moderati gli attuali nemici, prevenendo la possibilità che ne insorgano altri in futuro. Una politica del genere è assurda fin tanto che gli Stati Uniti rimangono una democrazia e un oggetto d’invidia per la loro potenza economica e militare. Cercare di diventare l’arbitro del mondo ha persino meno senso se il potere degli USA diminuisce, dal momento che l’elemento cruciale nella mediazione internazionale è la capacità di imporre la propria volontà.

La controversia che si sta aprendo sulle Falkland cristallizza la tensione all’interno dell’amministrazione tra la sua ambizione a diventare un grande mediatore internazionale e il rendersi conto concretamente che la nostra sicurezza dipende in modo significativo dal successo in Afghanistan e in Iraq. La Gran Bretagna è il nostro partner internazionale più stretto. I suoi leader hanno dato dimostrazione di tale legame anche rischiando personalmente sul piano politico nel sostenerci in Iraq e nel continuare ad appoggiarci in Afghanistan, nonostante i dubbi dell’opinione pubblica in entrambe le situazioni. Abbiamo bisogno del loro aiuto se vogliamo che la coalizione NATO abbia successo in Afghanistan. Dovrebbero essere premiati, e non puniti, per il fatto di prendere le nostre parti.

Al tempo stesso l’amministrazione Obama si sta facendo in quattro – come dimostrato dal sostegno del Segretario di Stato Clinton al presidente dell’Argentina – per dare prova delle nostre credenziali di imparzialità, stranamente, a un leader del  Sud America che è vicino a Hugo Chavez. Lo scorso autunno Chavez ha dichiarato pubblicamente che sarebbe stato felice di rifornire l’Iran con l’uranio. Lo farà se riuscirà a trovarne. E’ una posizione alquanto strana, non rispettare gli alleati che ci stanno aiutando a distruggere gli estremisti islamici e giocare dalla parte di politici argentini che sono vicini a un altro caudillo latino americano, uno che è in combutta con gli islamisti più pericolosi.

Placare Cina, Russia, Siria, Iran o demagoghi latino-americani non porterà agli Stati Uniti nient’altro che il loro disprezzo. Non cambierà le loro ambizioni. E’ necessario che Obama decida se vuole alleati fedeli o un’atmosfera internazionale in cui il disprezzo per gli Stati Uniti unisca i nostri avversari agli amici di una volta. Ricordarsi che la Gran Bretagna è il nostro più stretto alleato potrebbe essere un buon punto di partenza.

© The Weekly Standard
Traduzione Benedetta Mangano