Ancora a proposito del caso Giornale-Marcegaglia

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Ancora a proposito del caso Giornale-Marcegaglia

26 Ottobre 2010

 

Alla luce dei commenti pervenuti dopo la pubblicazione dell’articolo sul caso Marcegaglia-Giornale, il lato più intrigante dell’affaire pare individuarsi in quello che potremmo definire il “giallo delle perquisizioni”, sia quelle eseguite nella sede del Giornale, sia quelle personali. Proviamo, pertanto, a rispondere con ulteriori e specifici chiarimenti agli interrogativi più insistenti ed increduli.

Per quali misteriose ragioni, l’ufficio del pubblico ministero costituito presso il giudice penale di Napoli ha ritenuto di dovere – e potere – irrompere dentro un presidio della democrazia, qual è la libertà dell’informazione? Quale era o sembrava essere la posta in gioco, il bene giuridico da tutelare con tanta virulenza e urgenza?

In linea con le considerazioni già proposte su queste colonne, mette conto ribadire che l’iniziativa non poteva mirare alla ricerca della prova della “minaccia” di cui i due giornalisti si sarebbero resi responsabili, dal momento che la prova della minaccia risiede nella minaccia stessa, indipendentemente dalla sua concreta esecuzione. La quale ultima, semmai, vale a integrare ulteriori delitti, diversi dalla minaccia. Ad esempio, una minaccia di lesioni in danno di taluno configura di per sé la fattispecie legale di minaccia, alla quale, in caso di attuazione dell’avvertimento, si aggiungerebbe il delitto di lesioni personali. Resta, comunque, fermo che il reato continua a sussistere anche nel caso in cui alla minaccia non seguano le lesioni. Con la fondamentale differenza che, nella vicenda de qua, come subito vedremo, nessuno ha prospettato un pericolo di…lesioni in danno di alcuno.

Sotto questo profilo, le perquisizioni in argomento appaiono, come sono, totalmente prive di fondamento giuridico.

Non meno ingiustificata ed arbitraria appare la decisione degli inquirenti napoletani, ove si consideri la loro eventuale preoccupazione d’impedire che il reato – di minaccia – giungesse a “ulteriori più gravi conseguenze”. Conseguenze aggravanti che la polizia giudiziaria, con o senza le direttive del pubblico ministero, ha l’obbligo di impedire e prevenire.

Che, tuttavia, non ricorra un’evenienza siffatta è agevole comprendere tornando all’assunto investigativo, per esplorarne i presupposti giuridici. Esattamente, in che cosa potrebbe consistere l’”ingiusto danno” richiesto dalla norma incriminatrice e  prospettato dai due giornalisti alla presidente di Confindustria? La sola giustificazione di un intervento ‘militare’ presso un giornale potrebbe (astrattamente)concretarsi nel pericolo di una pubblicazione a carattere diffamatorio. Se non che, il giornalista indagato non ha annunciato l’intenzione di ‘diffamare’ la signora Marcegaglia! Bensì e semplicemente,quella di divulgare notizie che la riguardavano, come avviene quotidianamente, nel pieno esercizio della libertà d’informazione. A nulla rilevando la particolare circostanza che tale intenzione venisse anticipata – scherzosamente o meno – nel corso di un colloquio tra vecchi amici.

E in ogni caso, ove mai egli avesse inteso coartarne la volontà, per indurla a modificare determinati comportamenti, e non per uno scherzo – come sostiene – continuerebbe a mancare l’elemento costitutivo essenziale della minaccia, componente indefettibile del delitto di violenza privata. Infatti, la pubblicazione di notizie su un organo d’informazione, annunciata o meno,non costituisce, a priori, un “ingiusto danno”.E’, oltretutto,lo stesso pm di Napoli a sottolineare l’inviolabilità della libertà d’informazione.

E’ banale ricordare che soltanto in seguito a una pubblicazione, qualora taluno vi ravvisi offese alla sua reputazione, si procede a querela della parte. E soltanto dopo la proposizione della rituale querela. Com’è noto,non è questo il caso. E dunque?

In breve, l’annuncio del libero esercizio di un diritto costituzionalmente protetto, qual è quello dell’informazione, può certamenteconfigurare o essere avvertito come un danno. Non “ingiusto”,però,ossia contra ius, cioè contrario ai principi generali e/o a disposizioni specifiche dell’ordinamento. Neppure nel caso in cui il soggetto passivo della condotta ‘si senta’ intimorito o condizionato. Di più. Se l’espressione di un diritto-dovere di libertà non può e non deve incutere timore a nessuno, ciò vale ancor più per il sistema dei poteri che si suole chiamare “forti”, entro cui Confindustria notoriamente s’inscrive.

Evocando un pensiero profondo di Marie Curie, “nientenella vita deve essere temuto, deve solo essere compreso”.

Peraltro, l’opinione pubblica si trova di fronte alla precisa, significativa dimostrazione di questa elementare verità: la Procura di Napoli non è più intervenuta il giorno successivo, quando il Giornale ha pubblicato un ampio collage di servizi altrui sulla presidente di Confindustria. Né quest’ultima ha dato querela per diffamazione a mezzo stampa. Come volevasi dimostrare.

Il vero è che il principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura non di rado viene preso alla lettera, se non distorto. Da tutto, infatti, la magistratura può essere e sentirsi indipendente, meno cha dal dettato costituzionale, dalla legge penale, dalla logica e dal buon senso. Anche perché forze rilevanti dello schieramento politico e amplissimi settori dell’opinione pubblica vogliono continuare a credere nel valore di garanzia democratica della conclamata indipendenza, in questo bene tanto prezioso.

Come – soltanto per fare un esempio – quando l’attenzione della giurisdizione, in forza del sacro principio di uguaglianza, si concentra sul premier. Ma, poiché tutto ciò accade entro uno scenario nazionale lacerato da tensioni violente, tipiche dei contesti di guerra civile più o meno strisciante, vorremmo più che mai potere essere certi di quell’indipendenza. Ne risulterebbe rinvigorita ed esaltata la nostra comune speranza e fiducianel valore effettuale dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Un valore sublime, per questo sempre osannato da improbabili democratici e da professionisti a pagamento

Con tutto il rispetto per entrambi, naturalmente, ma, forse, soprattutto per i secondi. Se è nel giusto Roberto Saviano, noto paladino del principio di uguaglianza dei cittadini e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario – e delle cui sofferte veritànon ci permettiamo di dubitare – quando afferma, con voce calda e stentorea,che “la professionalità va pagata”in proporzione a ciò che essa produce. E aggiunge, con profonda indignazione, che il professionista non merita di essere “diffamato” mediante la divulgazione – un’autentica volgarità –dell’entità dei suoi compensi, nemmeno quando opera presso il servizio pubblico radiotelevisivo. Sicché, l’obbligo della trasparenza conviene sia sospeso, per evitare inopportuni turbamenti alla tranquillità ignara di quanti, dopola fatica consumata per “guadagnare pochi euro al mese”, hanno l’inconcusso diritto, anch’esso di rango costituzionale, di assistere a straordinari spettacoli in cui vanno in scena l’uguaglianza dei cittadini e l’autonomia della giurisdizione.

D’altra parte, non è stato il giovane Marx a concettualizzare la nuova etica pubblica come “morale del pagamento in contanti”?

E nella prospettiva democratica, per l’appunto, di un’uguaglianza antilivellatrice, c’è spazio anche per qualche cachet ‘fuori misura’. Epperò, se conosciamo il salario dell’operaio cassintegrato a zero ore, perché mai non dovremmo conoscere anche la precisa portata di quei ‘fuori misura’? Perché, insomma, sospendere di colpo il principio di uguaglianza – tanto invocato, anzi urlato – se non nei guadagni, almeno nella conoscenza dei medesimi? Ecco, allora, che la domanda più pertinente non riguarda i motivi che hanno indotto la RAI a divulgare quel dato. La domanda più interessante è la seguente: perché avrebbe dovuto segretarlo? Va da sé, difatti, che tale ‘conoscenza’ potrebbe spiegare efficacia ‘diffamatoria’ soltanto nell’eventualità che quei compensi fosseroingiustificati, se non delittuosi.

Eppure, versiamo entro un’aspra congiuntura di crisi, che non fa sconti nemmeno ai ceti più disagiati e sofferenti. Nemmeno, vedi caso, sull’importo del canone televisivo! Se Saviano “produce” discorsi tanto nobili e forti sull’uguaglianza costituzionale e l’indipendenza della magistratura, alla RAI, per parte sua, non incombe alcun dovere ‘pubblico’? Non potrebbe – solo per esemplificare – utilmente destinare una congrua parte degli introiti alle istituzioni della ricerca scientifica, magari nel campo della medicina? Lo scrittore Saviano, democratico e progressistaappassionato e sincero, ne sarebbe – ne siamo certi – lusingato e soddisfatto. In luce costituzionale. O no?

Un discorso, certo, questo, che può apparire (a dir poco) singolare: reputazioni che si ritengono lese non già dalle remunerazioni eccelse, ancorché “proporzionali”, con cui viene “pagata” la loro nobiltà,bensì dalla pubblica diffusione della notizia.‘Noblesse oblige’, sembra evidente, anche se in un senso alquanto differente da quello suggerito, nel 1835, da H. de Balzac in ‘Il giglio della valle’: fare ciò che è giusto, ciò in cui si crede, non mai in vista di guadagni o riconoscimenti. E in un senso, invece, assai più vicino all’interpretazione esilarante di Totò: la nobiltà è obbligatoria.

D’altronde, se “la professionalità va pagata”, se, insomma, non c’è ragione di vergogna, perché mai farlo di nascosto? Autocontraddizioni patenti, anche perchéil prestigio di una reputazione non può che aumentare, quando se ne conosca il …prezzo! “Di mercato”, s’intende, per aderire al letterale tenore della lagnanza dello scrittore Saviano. Stranezze.

Ipocrisie farisaiche, da sepolcri imbiancati? L’omaggio che – secondo F. de La Rochefoucauld – il vizio rende alla virtù? Forse, ma senza esagerare, ammonisce M. Yourcenar, in quanto che “la maggior parte pensa troppo poco per pensare doppio.”