Antiamericani ad ogni costo
05 Luglio 2007
di Daniela Coli
In questi giorni col Regno Unito sotto attacco, due autobombe pronte a esplodere nel centro di Londra, una jeep in fiamme contro il terminal dell’aeroporto di Glasgow, gli aeroporti blindati, il JFK allertato, siamo in ansia. Ed è allarmante la notizia che una mente degli attentati sia un chirurgo giordano che vive e opera in Gran Bretagna. Abbiamo l’11 settembre negli occhi. Però, se gli europei si sono sentiti americani per le due torri e londinesi il 7 luglio, è inutile negare l’esistenza di un profondo antiamericanismo. Non solo bandiere americane bruciate dai noglobal ai vari G8, ma intellettuali autorevoli uniti dall’ostilità per gli Stati Uniti. Secondo un sondaggio del Financial Times il 32% delle oltre cinquemila persone intervistate in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna, ritengono gli Stati Uniti la principale minaccia per il pianeta. Poiché il sondaggio include anche la Gran Bretagna, non possiamo pensare sia soltanto faccenda ideologica, magari il risentimento degli orfani dell’Urss. E’ qualcosa di più profondo e forse ha a che fare con il risentimento dell’Europa per la perdita del ruolo di protagonista nella storia mondiale dopo la seconda guerra mondiale. Anche da noi l’antiamericanismo non è una questione ideologica: è un sentimento trasversale, diffuso a sinistra, al centro e a destra, espresso con sfumature diverse: dalla critica all’imperialismo a quella dell’american way of life, fino al sarcasmo sulle attuali difficoltà Usa in Iraq. Quest’ostilità trasversale, mai analizzata sul serio, da noi nasce soprattutto dalla frustrazione dell’ultima guerra trasmessa da padri e nonni. Dal ricordo dei bombardamenti e dall’umiliazione per la sconfitta tenuta nascosta. Anche da quei partigiani, che fecero di tutto per non far liberare le città dagli americani e poi s’innamorarono subito dell’ Urss, il nemico numero degli Usa. In Italia, un po’ come in Giappone, non si è mai voluto ammettere la sconfitta, tutto è stato rimosso, fino a diventare la storia solo di un groviglio ideologico. Saper perdere è difficile. La Germania ovest, che negli anni ‘60 mandava studenti quindicenni, nati negli anni ‘40, a imparare l’inglese negli States con scambi scolastici, non ha vissuto anni ‘70 come i nostri, né ha problemi come i nostri. La Germania ha vissuto tutto il peso della colpa e della sconfitta. Noi, no, noi ci eravamo liberati da soli, avevamo vinto la guerra anche noi. Andare negli Stati Uniti, ancora negli anni ‘80, in alcuni ambienti culturali e accademici equivaleva a diventare una persona persa. Anche dopo l’89 non è cambiato molto. I mass media non hanno mai trasmesso un’idea positiva degli Stati Uniti: la New York nevrotica di Woody Allen, considerato europeo dagli americani, l’America del Vietnam, assassina di vietcong e pellerossa, poi quella affaristica della globalizzazione, speculatrice, multinazionale, razzista e ipocrita, tutta business e borsa, dai McDonald’s al Wto.
L’America invece è tante Americhe, cambia da stato a stato, una natura da mozzare il fiato. Paradossalmente, è sostanzialmente l’Europa prima della rivoluzione francese, con un sovrano eletto dal popolo. Per il resto, basta pensare al matrimonio. E’ il paese dove si divorzia, ma dove anche la famiglia più modesta per il matrimonio segue il cerimoniale tradizionale. Damigelle vestite in lungo – non importa se i vestiti sono comprati ai grandi magazzini – tutti tirati a lucido, uomini e donne, compresi nel loro ruolo per la foto o il video per figli e amici. Sono un paese religioso gli Stati Uniti, tante chiese diverse, pieno di will of belief. L’America sembra anche l’Europa prima della seconda guerra mondiale: è patriottica. Repubblicani o democratici, l’orgoglio di essere americani è sempre forte, anche nell’ultimo dustman. L’idea che se t’impegni ce la fai è il sogno americano: una casetta, la tranquillità, la rispettabilità. C’è una forte povertà pure negli States, ma è in genere una povertà dignitosa, come spiega un collega americano con antenati emigrati dall’Irlanda, che di fame ne hanno vista tanta. Il sogno americano si fonda soprattutto sul senso del merito, che comporta un rampollo Kennedy buttato fuori perché sorpreso a copiare da una grande università, democratica per giunta. Tant’è vero che un LCdM che si vanta di aver copiato a scuola suscita la reazione del Wall Street Journal.
Gli Stati Uniti sono una nazione di emigrati, con grandi antagonismi e relativi pregiudizi: lo mostrano Gangs of New York di Martin Scorzese e C’era una volta in America di Sergio Leone. Gli italiani che arrivavano all’inizio del ‘900 non erano certo ben visti. E nel secondo dopoguerra, negli ‘50 e ‘60, le cose non andavano meglio. Scorzese, un italiano che non si vergogna di essere siciliano, ha raccontato nel Padrino la storia di una famiglia mafiosa e i Soprano, un serial cult negli Usa, è una gustosa commedia su una famiglia oscillante tra malavita e psicoanalisi. I Soprano danno la misura di quanto sia cambiato anche lo stereotipo dell’italo-americano mafioso negli ultimi anni. Da noi i Soprano sono passati tra l’indifferenza e il fastidio, per quel disagio per cui in America ci si affretta subito a spiegare la differenza tra italiani e italo-americani e si diventa cool a parole come spaghetti e mandolino. Non si comportano diversamente gli americani quando vengono in Europa. Diventano chameleon, come confessano: si affrettano a criticare Bush e la guerra in Iraq. Dopo il Vietnam, l’11 settembre e l’Iraq, è diffusa la sindrome del Colossus, dal titolo del libro di Niall Ferguson, che ha un sottotitolo Ascesa e declino dell’impero americano per niente confortante. Per Niall Ferguson, di Glasgow, agli americani manca proprio la forma mentis dell’impero e questo è il guaio dell’Occidente. Di fronte ai problemi degli Stati Uniti, l’antiamericano beota si masturba in una masochistica esaltazione del nulla e a ragione Benedetto XVI afferma che l’Occidente si odia. Qualche volta l’antiamericanismo è addirittura inconsapevole. E’ anche la spezzatura di fronte all’ammirazione per la bellezza di un antico palazzo. Basta una frase banale come “è da secoli che è lì” a fare entrare in crisi un americano e a fargli pensare di venire da una cultura di frammenti. Come diceva Hobbes nel ‘600 ai connazionali che volevano visitare Roma, la nostra sfiducia e la loro diffidenza può provocare catastrofi. Proprio la nostra cultura, la bellezza delle nostre città, della nostra arte, le nostre chiese, i nostri palazzi, i nostri musei, sono lì da secoli a ricordarci di essere occidentali. Non dimentichiamolo.