
Berlusconi torna a parlare alla gente e supera la crisi della politica

22 Novembre 2007
Parlare al popolo superando i rituali della politica e
la cristallizzazione dei processi istituzionali. Ecco la rupture
di Sivio Berlusconi all’indomani dell’annuncio di Piazza San Babila ed ecco la
risposta tranciante, nella forma e nella sostanza, nel simbolo e nel messaggio,
alla stagnazione politico-istituzionale che il Paese attraversa ogni giorno di
più. Dinnanzi a questa preoccupante stagnazione, di fronte alla paralisi della
decisione e ai tanti pleonasmi del Palazzo, ad un Governo che sopravive nella e
della sua impasse e al cospetto di un
mondo globalizzato accelerato, di un’economia che corre veloce e degli
inarrestabili flussi di persone, idee, merci che attraversano la terra, non si
può aspettare un minuto di più. Ed è questo oggi l’errore più visibile di Fini.
Gli accordi, le manovre, gli orizzonti larghi, magari al 2009, le trattative
estenuanti nei palazzi, tra e dentro i partiti, tra e dentro le componenti, i
tavoli comuni, l’ingegneria costituzionale, il dilatarsi ad libidum dei tempi e degli spazi del compromesso. Inevitabilmente
tutto questo oggi sa di cerimonia, quindi di politica imbolsita, ottocentesca,
mentre fuori la gente comune si scontra tutti i giorni, anche drammaticamente,
%0Acon i problemi, reali, che la modernità gli impone. Non si può cerimoniare
mentre la nave Paese affonda, altrimenti si diventa correi della deriva. C’è
bisogno di qualcuno che prenda il timone sentenziava De Gaulle per fotografare
la crisi della IV Repubblica francese. La Repubblica zavorrata dal decadimento dei partiti,
non a caso. E Berlusconi ancora una volta quel timone lo ha afferrato, nel
pieno della tempesta.
Nel merito il discrimine resta netto. Preso atto della
crisi politica dell’attuale maggioranza di governo, emersa già in finanziaria e
destinata a dilaniarsi in sede di esame del protocollo Welfare, rimane opinione
comune e di buon senso quella per cui prima di tornare a confrontarsi con
l’elettorato, occorra un intervento migliorativo sulla legge elettorale. A
questo punto però già da un po’ di tempo si confrontavano due posizioni. Una
pragmatica tempestiva, sostenitrice di meccanismi in grado di razionalizzare il
sistema di voto vigente per cui sulla base di una reale volontà di superare l’impasse bastavano pochi e chirurgici
ritocchi migliorativi di tipo tecnico all’attuale legge; l’altra pretestuosa
dilatoria per cui l’accordo sulla legge elettorale era da trovarsi nei tempi
lunghi della legislatura evocando soluzioni più integraliste sia a livello
politico, con l’apertura di un affollatissimo e tumultuoso “tavolo”, sia a
livello tecnico, con la previsione di nuovi modelli ibridati o di vecchi
sistemi residuali. Dilatoria e pretestuosa una volta di più, dato che da questa
seconda posizione la volontà riformista
veniva, e viene tuttora, vincolata al cammino di una riedificazione
dell’architettura istituzionale, che, a prescindere da ogni giudizio di merito,
necessiterebbe come prima cosa di un tempo e di una stabilità politica che in
questo preciso momento storico alla politica italiana sono estranei aldilà di
ogni ragionevole dubbio. Dunque da una parte l’intesa e lo spirito di Gemonio,
sulla base della cosiddetta bozza D’Alimonte, dall’altra il traccheggiare
dell’Unione e da ultimo il “manchismo” sistemico di Veltroni. In pratica una
proposta concreta contro un’ offerta nebulosa e opportunistica. Una linea
politica chiara e immediata contro un interesse costruito, nel frattempo si
acquisiscono banche e si corteggia l’establishment, e differito al più tardi
del 2009, momento in cui volente o nolente Prodi, Veltroni giocherà la sua
partita nella proclamata e obbligata discontinuità con l’esecutivo in
carica.
Per questi motivi è difficile comprendere nel merito
le rivendicazioni elaborate da Fini, e il suo appello al cambio di quadro
“congegnato” e “tessuto” dalle colonne del Corsera. Uno spostamento strategico,
forse per troppa buona fede nei confronti delle lusinghe di Veltroni, forse, e
proprio di riflesso a Walter, per ambizioni leaderistiche infine e
definitivamente palesatesi una volta scrutato l’orizzonte del medio periodo, magari
anche legittimo, ma sicuramente sin troppo “manovrato” e in certe modalità
persino opaco.
Nella risposta cruenta e geniale di Berlusconi c’è
allora la consapevolezza che ancora una volta, e per giunta nei suoi più
stretti alleati, l’interesse particolare “di bottega” fosse prevalso
sull’interesse comune e quindi sull’interesse dell’elettorato di riferimento, e
a ben guardare in questa difficile contingenza sull’interesse stesso del Paese. Ecco quindi l’esigenza e la necessità di strappare.
Ecco dunque la rupture
simbolico- sistemica con la presa di responsabilità volta ad un rilancio
d’azione, tanto nel metodo – l’annuncio popolare eclatante ed il contenitore nouveaux idoneo a scrostare vecchie
ruggini e pronto a contaminarsi con risorse nuove e propulsive interne ed
esterne ad esso – quanto nel merito – il superamento dello spazio della
coalizione, dell’aggregazione coatta sofferente di mal di veto e logorata dai
continui compromessi, e la riproposizione della responsabilità dell’indirizzo
politico in forma diretta e singolare, seppure nell’ineluttabile approdo di
cogestione del governo.
In questo modo, con un rilancio netto squisitamente
politico, sul far della ribalta e legittimato in presa diretta dalla sua gente,
Berlusconi arroga ancora una volta su di sé l’investitura per risolvere la
crisi del Paese, e lo fa nella cruda sostanza aldilà di ogni timing e di ogni tattica particolare e
particolaristica. Lo fa da uomo d’azione, da geniale imprenditore, lo fa infine
e ancora una volta da esclusivo titolare dell’avanguardia politica della II
Repubblica, dotandosi di simboli ed insegne nuove. E non si sorprendano più di
tanto i laboriosi condottieri di Via dell’Umiltà. A volte, in particolari
momenti della storia, scandagliando le truppe e rinnovando i vessilli si
possono vincere anche le guerre.