C’è ancora molto da imparare dai veri realisti alla Kissinger
02 Aprile 2007
Nel suo interessante articolo apparso su L’Occidentale del 26 marzo, Marco Respinti ha messo in evidenza la debolezza del giornalismo italiano, che a suo modo di vedere si limiterebbe a riportare le analisi pubblicate da altre testate straniere, introducendovi a corollario l’immancabile dose di ideologia nostrana. Tuttavia, parlando di politica estera americana, Respinti si è adoperato in una serie di semplificazioni e inesattezze che a nostro modo di vedere richiedono importanti precisazioni.
In primo luogo, Respinti ha parlato di un recente approccio “neorealista” nella politica estera di Bush jr. Tralasciamo quanto questa svolta possa conciliarsi con il successo che lo stesso Respinti rinviene nelle politiche neoconservatrici. Difficilmente si cambia cavallo, se il cavallo corre e vince. Tornando invece alla svolta, l’utilizzo del termine “neorealismo” è quanto meno dubbio. E’ vizio assai diffuso nel giornalismo italiano quello di individuare “novità” anche quando non ce ne sono. E questo ci sembra uno di quei casi. Di “nuovo” non sembra esserci molto nel realismo che contraddistingue il nuovo corso americano, visto che tanto i principali protagonisti (Henry Kissinger, James Baker) quanto i i principi e le soluzioni da questi sostenuti sono nuovi.
Non è tutto. Respinti ha fornito al lettore un’elencazione eufemisticamente dubbia di “neorealisti”. In realtà, la serie di personaggi additati come tali dal giornalista non hanno mai avuto a che fare col “neorealismo”. Per intenderci, occorrerà innanzitutto chiarire il significato del termine “neorealismo”. Il neorealismo è un paradigma della Teoria delle Relazioni Internazionali. Esso comprende varie teorie, la più popolare delle quali è quella formulata da Kenneth N. Waltz (1979). Chiunque la conosca è a conoscenza del fatto che non si tratta di una dottrina di politica estera. D’altronde, lo spiega lo stesso Waltz: “this is not a theory of foreign policy”. E’ una teoria della politica internazionale. Spiega – se ci è permessa una metafora economica – l’equilibrio generale della politica internazionale. Le altre teorie appartenenti al programma di ricerca “neorealista” non fanno eccezione. Il loro postulato fondamentale è che l’anarchia internazionale (l’assenza di un governo mondiale) è il motore scatenante la politica internazionale e la causa fondamentale (ancorchè non unica) di tutti i conflitti che insanguinano il globo. Anarchia significa insicurezza, e insicurezza significa lotta per la sopravvivenza. Pertanto, fin quando ci sarà anarchia, gli Stati saranno portati a combattersi.
Questo è il “neorealismo”. I vari personaggi citati da Respinti non hanno nulla a che fare con questo paradigma. Baker è un politico di lungo corso verosimilmente più intenzionato a realizzare una politica estera pragmaticamente efficace per il suo Paese che a teorizzare la ragione per cui gli Stati si fanno la guerra. Kissinger, invece, è stato ovviamente un politico, ma anche storico e teorico del sistema internazionale. L’ex docente di Harvard si è segnalato a livello accademico e diplomatico per il realismo classico, la Realpolitik di Bismarck, Metternich, Cavour e Theodore Roosevelt, per intenderci. Con il “neorealismo”, quindi, non condivide nulla, tanto che nella recensione del suo libro “A World Restored”(1964), apparsa su Foreign Affairs del settembre-ottobre del 1997, Francis Fukuyama lo contrappone esplicitamente a Waltz: realismo classico versus “neorealismo”.
Brzezinski è un docente di politica estera americana, legato anch’egli al realismo classico e famoso per aver reinterpretato le teorie geopolitiche di Mackinder. La distanza di Brzezinski dal “neorealismo” e’ palesata da uno scambio di articoli comparso su Foreign Policy nel gennaio 2005 con John J. Mearsheimer, quest’ultimo sì, un “neorealista”. Il fatto che a Mearsheimer sia stato contrapposto Brzezinski la dice lunga su quanto siderale sia la distanza di quest’ultimo dal “neorealismo”.
Su Joffe – che non e’ un accademico – e che nei suoi libri è solito mischiare numerose teorie, non c’è nulla da dire, se non che non avendo mai formulato alcuna teoria in proprio, risulta difficile da collegare ad una particolare scuola.
Respinti, inoltre, ci ha parlato di Francis Fukuyama e Eliot Cohen. Anche qui, il quadro è purtroppo completamente differente da quello che si evince dal suo scritto. I due accademici della SAIS non solo non sono “neorealisti”, ma non sono nemmeno realisti! Il primo ha scritto un libro, “The End of History”, nel quale sosteneva che la diffusione della democrazia e del capitalismo avrebbero portato alla fine degli scontri militari, “della politica”. Il contrario di quanto postula non solo il neorealimo ma anche il realismo. Per fugare ogni dubbio, comunque, Fukuyama ha piu’ volte sottolineato nel suo ultimo libro, “America at the Crossroad”, la necessità, a suo modo di vedere, di scongiurare un ritorno al “realismo kissingeriano”. Respinti scrive invece che non si tratta di un “neocon”. Fukuyama non ha mai fatto formalmente alcuna professione di fede, è vero, ma se e’ arrivato a scrivere un libro per spiegare le ragioni del suo allontanamento dal movimento “neocon”, evidentemente non era tanto distante da questa scuola di pensiero (2006).
Relativamente a Cohen, sarebbe sufficiente menzionare un articolo che questi ha pubblicato recentemente proprio sulla rivista ripetutamente citata da Respinti, The American Interest. In “Thucidydes, Reall!”, Cohen ha presentato per l’ennesima volta la sua critica ai realisti, deridendone gli assunti dai quali essi partirebbero (The American Interest, gennaio-febbraio 2005). Ma se si vuole andare piu’ in dettaglio, basti dire che l’importanza che egli attribuisce nelle sue pubblicazioni al ruolo delle leadership si trova all’esatto opposto dell’analisi sistemica – “neorealista” – di Waltz (per tutti si veda: “Supreme Command”, 2004).
Sorvolando sulla ricostruzione degli accadimenti interni al gruppo di The National Interest che Respinti propone (basterà dire che l’abbandono di Fukuyama e di altri della rivista è notoriamente dovuta alla linea oramai decisamente realista voluta dal think tank editore, il Nixon Center (nomen omen), e non il contrario, come afferma il giornalista), ci soffermiamo infine su un passaggio della sua analisi che ci ha stupiti. Respinti rivolge una decisa critica alla politica del containment. Scrive: “Il fatto pero è che i [realisti] sono diretti discendenti (e talora le medesime persone) degli apostoli di quella che a suo tempo, e in riferimeno al confronto con l’Unione Sovietica, veniva definita politica del contenimento, una politica che in molti e decisivi e drammatici casi si è rivelata solo un palese cedimento.” E rincara la dose in conclusione: “La presidenza di Ronald W. Reagan segnò il punto di svolta nodale della politica estera statunitense allorché dall’immobilismo “realista” dei Kissinger passò al realismo decisionista di quelli che anche da noi si è imparato a chiamare neoconservatori.”
A Respinti – ma soprattutto ai lettori de L’Occidentale – ci preme invece far notare come la storiografia abbia accertato la bontà delle scelte di Kennan e Truman. Il contenimento dell’espansione sovietica, inteso come meticoloso “vallo di Adriano”, contrapposto alla forza congenitamente imperialistica dell’Unione Sovietica e atto a far implodere le sue contraddizioni interne in un arco temporale indefinito, è quanto di più raffinato e significativamente profetico la storia del Novecento ci abbia lasciato in eredità. Kennan ebbe la capacità – riconosciuta oggi finanche da chi all’epoca lo avversava dal fronte opposto – di intuire che l’alternativa al conflitto nucleare, che da lì a poco avrebbe condizionato i rapporti tra i due blocchi, risiedeva nella fiducia incrollabile della bontà del sistema socio-politico americano (e occidentale) in contrapposizione a quello comunista. I fatti del 1989 e del 1991 stanno a testimoniarlo: l’implosione del sistema per cause proprie. Ma non solo. Che Reagan sia stato un grande presidente, non c’è alcun dubbio. Che egli abbia in qualche modo dato il colpo mortale al moloch sovietico, anche. Ma semplificare acriticamente scenari così complessi non sempre dà i risultati sperati. Il tremendo impaccio geopolitico in cui l’Urss venne a trovarsi in Medio Oriente lo si deve a Kissinger. Come a Kissinger e a Nixon si deve l’apertura alla Cina e la conseguente “crepa” nel blocco comunista che da lì a poco si trasformerà in isolamento diplomatico crescente della dirigenza sovietica in Asia, a dispetto di una sovraestensione strategica superflua – che lo stesso Kissinger astutamente tollererà – in Africa.
La distensione kissingeriana fu l’esatto contrario de “l’immobilismo realista” di cui parla Respinti. Essa mirò a congelare i rapporti in Europa per liberare energie dinamiche altrove, dove i rapporti di forza non erano perfettamente equilibrati e statici. Il preteso “immobilismo” del realismo kissingeriano evoca facilmente l’interpretazione della distensione che ne diedero i comunisti di Rinascita: non una risposta tattica e dinamica alla crisi economica, politica ed identitaria degli Stati Uniti post-Vietnam, bensì una sorta di accondiscendenza passiva e timorosa di Washington al dinamismo imperialista della Dottrina Breznev. Sorprende, a distanza di oltre trent’anni, rileggere interpretazioni storiografiche di matrice marxista in merito alla détente.