Cina, lo scontro con l’Occidente è solo una questione di tempo
22 Gennaio 2011
Per dieci anni ho sostenuto che la Cina è il primo esempio di un fascismo maturo. E il più grande riconoscimento immaginabile è stato tributato a questa teoria dalla stessa Repubblica Popolare. Quando di questa mia teoria pubblicai una versione aggiornata (apparsa per la prima volta sul Wall Street Journal nel 2002 e successivamente ripubblicata sulla National Review Online in forma diversa) sulla Far East Economic Review nel maggio del 2008, l’intero numero fu vietato in Cina.
In occasione della visita di Hu Jintao a Washington, appare opportuno rivisitare un tema come questo che mi sembra sia stato abbondantemente confermato dagli eventi.
Maggio 2008
Pechino abbraccia il fascismo classico
di Michael A. Ledeen
Nel 2002 ho elaborato una teoria per la quale la Cina potrebbe essere qualcosa di mai visto prima: un maturo Stato fascista. Gli eventi verificatisi di recente da quelle parti, e specialmente la rabbia della massa in risposta alle critiche occidentali, sembrano confermare quella teoria. Fatto ancor più significativo, durante i sei anni intercorsi i leader cinesi hanno consolidato la propria influenza sugli organi di controllo politici, economici e culturali. Invece di abbracciare il pluralismo come in tanti si erano aspettati, l’élite corporativa cinese è diventata ancor più radicata.
Benché continuino a definirsi comunisti e benché il Partito comunista guidi ancora il paese, il fascismo classico potrebbe essere un punto di partenza per il nostro tentativo di comprendere la Repubblica Popolare. Immaginate l’Italia dopo cinquant’anni dalla rivoluzione fascista. Mussolini sarebbe morto e sepolto, lo stato corporativo sarebbe per lo più intatto, il partito sarebbe saldamente al comando e l’Italia sarebbe governata da politici di professione, parte di un’élite corrotta, invece che dai veri fedeli che avevano marciato su Roma. Non sarebbe più un sistema basato sul carisma ma si appoggerebbe invece quasi per intero sulla repressione di natura politica, i capi non sarebbero idealisti ma freddi e cinici e farebbero continuo ricorso a frasi fatte sulla grandeur del “grande popolo italiano”, “chiamato senza sosta a emulare la grandezza dei propri avi”.
Sostituite con il “grande popolo cinese” e tutto suonerà familiare. Di certo non abbiamo a che fare con un regime comunista da un punto di vista politico o economico. Né i leader cinesi, compresi coloro che avevano seguito il riformatore radicale Deng Xiaoping , sembrano minimamente interessati a percorrere il sentiero, pericoloso e accidentato, che conduce dallo stalinismo alla democrazia. Essi sanno che Mikhail Gorbaciov cadde quando cercò di controllare l’economia mentre elargiva libertà politica. Stanno cercando di fare l’opposto: mantenere una solida presa sul potere politico permettendo al tempo stesso aree relativamente libere per l’economia delle imprese. Sono metodi politici, i loro, piuttosto simili a quelli utilizzati dai fascisti europei ottant’anni fa.
A differenza dei tradizionali dittatori comunisti – Mao, tanto per fare un esempio – che avevano estirpato la cultura tradizionale per rimpiazzarla con uno sterile marxismo-leninismo, ora i cinesi abbracciano entusiasticamente e persino compulsivamente, le glorie della lunga storia cinese. La loro appassionata riaffermazione della grandezza delle dinastie del passato ha lasciato stupefatti e sconcertati gli osservatori occidentali perché non rientra nel modello di un “sistema comunista in evoluzione”.
Ma anche i leader fascisti degli anni Venti e Trenta avevano usato proprio lo stesso accorgimento. Mussolini aveva ricostruito Roma per dare uno spettacolare promemoria visivo delle glorie passate e aveva sfruttato la storia antica per giustificare la conquista della Libia e dell’Etiopia. L’architetto preferito di Hitler aveva realizzato costruzioni neoclassiche in tutto il Terzo Reich e il suo compositore d’opera preferito organizzava festival per celebrare il passato mitico della nazione. ……
Come i loro predecessori europei, i cinesi reclamano un più ampio ruolo nel mondo in virtù della loro storia e della loro cultura, non soltanto sulla base della loro potenza attuale o delle loro conquiste in campo scientifico o culturale. La Cina addirittura gioca con alcune tra le più bizzarre nozioni dei primi fascismi, come il programma per rendere il paese autosufficiente nella produzione del grano: la stessa ricerca dell’autarchia che aveva ossessionato sia Hitler che Mussolini.
Certo è che il mondo è molto cambiato rispetto alla prima metà del secolo scorso. È più difficile (e talvolta impossibile) andare avanti da soli. Le passioni per la totale indipendenza rispetto al mondo esterno sono temperate dalle realtà dell’odierna economia globale, e l’appetito della Cina per il petrolio e per altre materie prime è assolutamente leggendario. Ma i cinesi, come i fascisti europei, sono intensamente xenofobi e, ovviamente, preoccupati che la propria gente finisca per rivoltarglisi contro se dovessero imparare troppo dal resto del mondo. Essi, di conseguenza, lavorano duro per dominare il flusso dell’informazione. Basta chiedere a Google, costretta a collaborare con i censori per poter lavorare in Cina.
Alcuni studiosi della Cina contemporanea considerano quello di Beijing un regime molto nervoso, forse persino instabile, e sono incoraggiati in tale convinzione quando vedono eventi recenti come l’esplosione del sentimento popolare contro le modeste rimostranze dei monaci tibetani. Quella visione è ulteriormente rafforzata da simili proteste contro il comportamento cinese, dai diritti umani all’inquinamento dell’aria, dalla preparazione dei Giochi Olimpici al fallimento dei controlli di qualità cinesi in materia di beni alimentari e giocattoli.
In tutti questi casi, verrebbe la tentazione di concludere che il regime è preoccupato per la propria stessa sopravvivenza e che, al fine di radunare passioni nazionalistiche, si sente obbligato a dipingere il paese come una vittima globale. E forse hanno ragione. La prova più solida alla base della teoria dell’insicurezza ai più alti livelli della società cinese è la pratica dei “principini”, i figli ricchi delle élites al comando, di comprare case in posti come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. Non si tratta delle case di lusso privilegiate dai funzionari e dai facoltosi uomini d’affari dei paesi mediorientali ricchi di petrolio. Si tratta piuttosto di tipiche case “normali”, del genere che il potenziale emigrante potrebbe voler tenere di riserva in caso nel proprio paese le cose dovessero andare male.
Dall’altro lato, la cultura del vittimismo ha sempre fatto parte della cultura fascista. Proprio come la Germania e l’Italia nel periodo tra le due guerre, la Cina si sente tradita e umiliata e cerca di vendicare le sue molte ferite storiche. Non si tratta necessariamente di un autentico segnale d’ansia, è piuttosto parte integrante di quella sorta di ipernazionalismo che è sempre stato connaturato a tutti i regimi e movimenti fascisti. Non siamo in grado di posare lo sguardo all’interno delle anime dei tiranni cinesi, ma ho il dubbio che la Cina sia un sistema fortemente instabile, lacerato tra gli impulsi democratici del capitalismo da una parte e le pratiche repressive del regime dall’altra. È un fascismo maturo, non un forsennato movimento di massa, e l’attuale regime non è composto da fanatici rivoluzionari. I leader cinesi d’oggi sono gli eredi di due rivoluzioni molto diverse, quella di Mao e quella di Deng. La prima è stato un esperimento comunista fallito, la seconda è una trasformazione fascista il cui futuro è ancora tutto da decidere.
Se il modello fascista fosse esatto, non dovremmo minimamente sorprenderci per la recente retorica o per le manifestazioni di massa. La Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini erano in tutto e per tutto sensibili a ogni segnale di critica dall’estero come lo sono attualmente i cinesi. Perché in entrambi i casi il vittimismo fa sempre parte della definizione di tali Stati e perché è una tecnica fondamentale di controllo della massa. Le violente denunce degli occidentali che criticano la repressione cinese potrebbero non rappresentare un segnale d’ansia interna o di debolezza. Potrebbero al contrario essere un segnale di forza, una dimostrazione della popolarità del regime. Va ricordato che il fascismo europeo non cadde a causa di una crisi interna, ci è voluta una guerra sanguinosa per buttarlo giù. Il fascismo godeva di una popolarità tanto allarmante che né gli italiani né i tedeschi seppero produrre più di una resistenza simbolica fin quando non cominciarono a perdere la guerra. Potrebbe essere benissimo che la condanna di massa degli appelli occidentali a una maggiore tolleranza politica sia di fatto un segnale di successo politico.
Dal momento che il fascismo classico ha avuto un arco di vita tanto breve, è difficile sapere se uno stato fascista stabile e duraturo sia possibile. Da un punto di vista economico lo Stato corporativo, di cui l’attuale sistema cinese è un esempio da manuale, potrebbe dimostrarsi più flessibile e adattabile di quella rigida pianificazione centrale che ha condannato il comunismo nell’Impero Sovietico e altrove. La nostra breve esperienza con il fascismo rende difficile valutare le possibilità di evoluzione politica, e la Repubblica Popolare è piena di segreti. Ma strateghi dotati di prudenza farebbero assai bene a dare per assodato che il regime durerà un po’ più a lungo, forse molto più a lungo.
Se si tratta di un regime popolare, fascista, deve forse il mondo tenersi pronto per qualche scontro difficile e pericoloso con la Repubblica Popolare? Gli Stati fascisti del XX secolo erano estremamente aggressivi…non è possibile che anche la Cina cercherà estendere il proprio dominio allo stesso modo?
Credo che la risposta a questa domanda sia “sì, ma”. A molti leader cinesi potrebbe essere gradita la vista della propria influenza che si estende attraverso la regione e oltre. L’esercito cinese sta mettendo a punto, e neanche tanto di nascosto, il potenziale per sconfiggere le forze americane in Asia al fine d’impedirne l’intervento in qualunque conflitto alla sua periferia. Nessun serio studioso della Cina dubita dell’enorme ambizione sia della leadership che delle masse. Tuttavia, al contrario di Hitler e Mussolini, i tiranni cinesi non hanno urgente bisogno di una veloce espansione geografica per dimostrare la gloria del proprio paese e l’autenticità della propria visione. Almeno per ora, il successo in patria e il riconoscimento globale dei traguardi cinesi sembrano essere sufficienti. Dal momento che il fascismo cinese è meno ideologico dei suoi predecessori europei, i leader cinesi sono di gran lunga più flessibili di Hitler e Mussolini.
Nondimeno, la breve storia del fascismo classico suggerisce che è solo questione di tempo prima che la Cina cercherà lo scontro con l’Occidente. Si tratta di qualcosa connaturato al dna di regimi del genere. Prima o poi i leader cinesi si sentiranno obbligati a dimostrare la superiorità del loro sistema. Superiorità vuol dire che gli altri devono mettersi in ginocchio e soddisfare i desideri della nazione dominante.
Ma allora le democrazie come devono trattare con la Cina? Il primo passo è liberarci della nozione che vuole la ricchezza come il più sicuro garante della pace. L’Occidente ha trattato con l’Unione Sovietica e le ha anche riconosciuto dei meriti, ma ciò non ha impedito al Cremlino di espandersi nel Corno d’Africa né di sponsorizzare gruppi terroristici in Europa e in Medio Oriente. Una Cina ricca non sarà automaticamente meno incline a far guerra a Taiwan oppure, per lo stesso motivo, a dichiarare o minacciare guerra nei confronti del Giappone.
Anzi, potrebbe esser vero il contrario: più la Cina diventa ricca e forte, più rafforza la propria potenza militare, e più probabili potrebbero diventare guerre del genere. Ne consegue che l’Occidente deve prepararsi alla guerra con la Cina, sperando in tal modo di scoraggiarla. Un grande romano disse una volta: se vuoi la pace, preparati per la guerra. Rispetto a uno stato fascista cinese che vuole giocare un ruolo globale, questo è un consiglio sensato.
Nel frattempo, dovremmo fare tutto il possibile per convincere il popolo cinese che ai suoi interessi a lungo termine fa miglior gioco una maggiore libertà politica, non importa quanto irritante e caotica possa essere a volte. Credo che su questo possiamo credere ai leader cinesi. Ogni regime tanto palpabilmente preoccupato del libero flusso dell’informazione sa bene che le idee sulla libertà possono essere molto popolari. Mettiamo alla prova quell’ipotesi e parliamo direttamente al “miliardo”, ai cinesi. Al giorno d’oggi di sicuro possiamo trovare il modo di arrivare a loro.
Se non compiamo questi passi, il rischio per noi aumenterà di certo e le esplosioni di rabbia, manipolate o spontanee, si ripeteranno. E alla fine prenderanno la forma di azioni concrete.
© Faster, Please!
Traduzione Andrea Di Nino