Climategate: maggiore è l’allarme, più alti sono i guadagni degli scienziati
05 Dicembre 2009
L’anno scorso, la ExxonMobil ha donato 7 milioni di dollari ad un evento di beneficenza organizzato da istituti di politiche pubbliche, tra cui Aspen Institute, Asia Society e Transparency International. Inoltre ha elargito 125.000 dollari suddivisi tra Heritage Institute e National Center for Policy Analysis, due think tank di tendenza conservatrice che hanno mostrato un forte dissenso riguardo ciò che fino a poco tempo fa veniva definito – senza ironia – il “consenso” sui cambiamenti climatici.
Leggendo alcuni commenti della stampa su queste donazioni – che ammontano a circa lo 0.00027% dei profitti totali dell’Exxon nel 2008, pari a 45 miliardi di dollari – si potrebbe pensare di essere di fronte allo scandalo dei nostri tempi. Ma grazie a quello che oggi viene definito climategate, viene fuori che il vero scandalo sta da un’altra parte.
Il climategate, come ben sa chi legge questo articolo, riguarda alcuni dei maggiori scienziati e studiosi del clima globale, che lavorano in tandem per bloccare la libertà di richiesta di informazioni, per ostacolare gli scienziati che esprimono un dissenso, per manovrare il processo di revisione del lavoro dei colleghi, e per oscurare, distruggere o manipolare i dati scomodi sulle temperature – fatti che sono venuti alla luce la scorsa settimana con la rivelazione del contenuto di migliaia di e-mail scambiate tra membri della Climate Research Unit (CRU) dell’University of East Anglia.
Ma la vera domanda è perché gli scienziati si siano comportati in questo modo, soprattutto dal momento che si dice che le prove scientifiche del riscaldamento globale causato dall’uomo siano stabilite con certezza. Per rispondere a questa domanda, può essere utile pensare che proprio gli stessi allarmisti seguano quei metodi “finalizzati alla ricerca del denaro” di cui parlano tanto.
Consideriamo il caso di Phil Jones, direttore del CRU e personaggio al centro del climategate. Secondo uno dei documenti del suo centro resi noti dagli hacker, tra il 2000 e il 2006 Jones è stato il beneficiario (o co-beneficiario) di sussidi di ricerca per il valore di qualcosa come 19 milioni di dollari, pari ad una cifra sei volte superiore rispetto a quella ottenuta negli anni Novanta.
Come mai tutti questi soldi sono piovuti dal cielo così velocemente? Semplicemente perché l’allarme clima ha continuato a mantenersi ad alti livelli. E più è alto il grado di allarme, maggiori sono le somme che entrano. E chi ha interesse a mantenerlo così alto se non studiosi come Jones, che hanno ogni probabilità di trarne vantaggio?
E così, gli ultimi stanziamenti della Commissione Europea per le ricerche sul clima si avvicinano a quasi 3 miliardi di dollari, senza contare i fondi messi a disposizione dai governi dei paesi membri. Negli Stati Uniti, la Casa Bianca, in relazione ai problemi climatici, ha intenzione di investire 1.3 miliardi di dollari negli sforzi da parte della NASA, 400 milioni di dollari in quelli da parte della NOAA, e altri 300 milioni di dollari per la National Science Foundation. Anche gli altri stati hanno aderito a questa linea d’azione, con la California che – dando l’impressione di non avvertire abbastanza le difficoltà economiche – ha stanziato 600 milioni di dollari per le proprie iniziative sulla questione del clima. In Australia, gli allarmisti hanno un proprio Dipartimento sui Cambiamenti Climatici a loro disposizione per la raccolta di fondi.
E tutto questo rappresenta solo una minima parte dei 94 miliardi di dollari che, secondo le stime della HSBC Bank, sono stati spesi quest’anno in tutto il mondo per i cosiddetti “eco-incentivi” – in larga misura etanolo e altri tipi di energia alternativa –, dai quali Al Gore ed i suoi partner della Kleiner Perkins sperano di trarre grandi profitti.
Come ben sappiamo, l’offerta crea la domanda. E così per ogni ulteriore miliardo stanziato in sussidi finanziati dai governi (oltre alle decine di milioni provenienti da fondazioni come la Pew Charitable Trusts), università, istituti di ricerca, gruppi di difesa con tutte le varie diramazioni e i loro dipendenti, sono usciti subito allo scoperto di fronte alla possibilità di ricevere quel denaro.
Oggi questi gruppi formano una sorta di ecosistema sui generis. E non si tratta solo delle vecchie guardie come Sierra Club o Greenpeace, ma anche di Ozone Action, Clean Air Cool Planet, Americans for Equitable Climate Change Solutions, Alternative Energy Resources Association, California Climate Action Registry, e tante altre ancora. Tutte queste associazioni hanno ricevuto fondi legati ai cambiamenti climatici, e di conseguenza ognuna di loro deve credere nell’esistenza (e nella catastrofica imminenza) del global warming, proprio come ogni prete deve credere nell’esistenza di Dio.
Nessuno di questi gruppi è corrotto di per sé, nel senso che nessuno spende il denaro ricevuto per qualcosa di diverso rispetto agli intenti dichiarati. Ma ognuno di loro si basa su una premessa che è intrinsecamente corrotta, e secondo la quale l’ipotesi da cui dipende la loro sopravvivenza è stata dimostrata da prove effettive. Se venissero a mancare quelle prove, tutto ciò che quei gruppi rappresentano – comprese le migliaia di posti di lavoro che offrono – svanirebbe nel nulla. In questi casi si parla di interesse personale, e gli interessi personali sono nemici di una scienza solida.
Considerazioni queste che ci riportano agli scienziati del climategate, coloro che detengono le chiavi della cattedrale del global warming. In una delle rivelazioni più discusse della scorsa settimana, un programmatore di computer scrive riguardo al database del CRU relativo alle temperature: “Mi dispiace dover riferire che gli altri database sembrano quasi paragonabili ad uno stato tanto povero quanto lo era l’Australia….. Aarrggghhh! Sinceramente non si vede una via d’uscita… possiamo ottenere un risultato adatto, ma solo inventandoci un mucchio di sciocchezze!”
Di certo questo non rappresenta una scienza solida, ma piuttosto delle fondamenta empiriche con crescenti incrinature. E non importa quanti edifici da miliardi di dollari possano essere costruiti su tali fondamenta: prima o poi tutto ciò è destinato a crollare.
© The Wall Street Journal
Traduzione Benedetta Mangano