Da Peppone e Don Camillo a oggi, com’è cambiata la tv italiana

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Da Peppone e Don Camillo a oggi, com’è cambiata la tv italiana

Da Peppone e Don Camillo a oggi, com’è cambiata la tv italiana

28 Settembre 2022

Ancora una volta i giornali, ma soprattutto la tv, hanno sbagliato. La tv non ha colto i segnali del cambiamento, non ha saputo interpretare l’orientamento degli elettori, come accadde ai tempi della Brexit, dell’elezione di Trump, della guerra in Ucraina e l’elenco sarebbe infinito. Questo fa riflettere sull’ informazione, ma soprattutto sul mezzo televisivo. Che cos’è esattamente oggi “il cubo magico” in ogni salotto italiano?

“Se non vai in televisione non sei nessuno”. Questa frase negli ultimi decenni si è trasformata in una verità che può essere sintetizzata così: “La televisione si sta occupando di te, della tua vita”. In queste parole apparentemente semplici, quasi banali si racchiude un percorso di profonda trasformazione iniziato una trentina d’anni fa nei paesi occidentali, in primo luogo nella nostra Italia che è stata un bacino di sperimentazioni più o meno nascoste, poi consolidate nel tempo. Capaci di incidere profondamente in primo luogo nella politica e nelle sue scelte. Ma, andiamo con ordine.

Fino agli anni Ottanta la tv doveva raccontare in primo luogo la realtà dell’Italia. Raccontare, portare alla portata dei telespettatori, una società con i suoi valori, le sue contraddizioni. La sua forza di essere diventata una potenza industriale. Nel suo dna c’era la scelta di appartenere al blocco occidentale. Democrazia, rispetto dei valori, la dottrina sociale del mondo cattolico. I nostri nonni e il loro passato erano lì a rappresentarlo.

La tv doveva recepire tutto questo, farlo suo e raccontarlo: da nord a sud. Don Camillo e Peppone, le cui repliche fanno ancora ascolti in doppia cifra, erano un po’ l’emblema di ciò. Dc contro Pci, due mondi opposti, ma tutto sommato dialoganti, in nome del bene comune.

Come si trasportava la meravigliosa favola di Brescello in tivù? Con la professionalità degli addetti all’informazione. I telegiornali in primo luogo facevano la parte del leone. “L’ha detto la televisione” era il riconoscimento di quel racconto. La nostra storia, i suoi valori per affrontare il futuro dei nostri figli. Chi entrava nelle stanze dove si “faceva un telegiornale” sapeva che aveva un compito ben preciso. Era la stella polare di una società. Poi qualcosa si è rotto.

La televisione da luogo di rappresentazione del racconto della nostra società è diventata il luogo dove veniva elaborata una nuova realtà, una cultura che non esisteva nel nostro paese ma, che veniva imposta in maniera martellante e in modo così invasivo da diventare una nuova, artificiosa visione della quotidianità. Falsa, ma imposta. Quindi simil-vera. Questo si è sviluppato su tre diversi generi televisivi: Fiction, reality, talk.

In Italia questa declinazione ha avuto un percorso del tutto particolare. Partita in primo luogo nelle tv private, per contagio questa trasformazione è arrivata in tutto il mondo televisivo. E, il nostro paese non è stato più lo stesso. Come è stato possibile? Lo capiremo analizzando i tre generi.

Fiction vuol dire finzione. Il commissario Montalbano non è un collega di Giovanni Falcone. Ma Montalbano diventa un eroe quasi reale e produce un modello sociale fortissimo. Reality: la sua etimologia dall’inglese significa realtà ma non è affatto realtà. Quelle decine di persone che vanno su un’isola a litigare riprese da telecamere, L’Isola dei famosi, non vivono realmente. Sono indotte a farlo, anche se a casa tutti non se ne accorgono.

Anzi, non se ne accorgevano, ma poi il meccanismo si inceppa perché quando tornano a casa, cioè in studio, il pubblico vede i naufraghi come sono veramente e scopre che non hanno niente da offrire. Li dimenticano per sempre. E gli ascolti infatti calano. Lo stesso vale per il padre dei reality, cioè il Grande Fratello.

Un tempo i giovani in cerca di riscatto giocavano a calcio, oppure tiravano di boxe. Sudore e fatica in cambio di soldi, fama e riscatto. Poi arrivarono Taricone (purtroppo prematuramente scomparso in un incidente col paracadute) e soci. Fu la rivoluzione. Il nuovo riscatto passava di lì, una telecamera accesa, parole in libertà, apparente verità da uomo della strada. Lo spettatore poteva dire: “Uno come me ce l’ha fatta”. Ma anche questo è venuto a noia.

Allora gli ospiti della casa sono diventati via via bizzarri, transgender, traditori seriali, amanti dell’amore a tre, trasgressivi e maleducati. Perfino la bestemmia, a parole esecrata, è stata utilizzata per fare ascolti. Fino alla ribellione. Oggi Il Gfvip viene battuto dalle partite di calcio o da un buon film. Inizio del declino. Ma finché si resta nell’intrattenimento il discorso fila via.

Altro discorso è invece il Talk, il parlato. Perché qui non siamo più nell’intrattenimento, ma transitiamo nell’info. Ricordate le vecchie e polverose Tribune politiche? Poche, centellinate, ma sufficienti a indirizzare le scelte dell’elettore. Oggi i vecchi dibattiti si sono trasformati in discussione fine a se stessa e per discutere si può mettere in discussione qualsiasi cosa. I vaccini, l’origine del Covid, l’invasione russa in Ucraina, fino ai valori, la famiglia, gli amori, il modo di procreare.

Abbiamo sentito dire che il crocifisso nelle aule, parte della nostra storia occidentale, offende i non cattolici. Chi lo dice? Un esperto di religioni, un sociologo? No, una soubrette. Diceva la Fallaci: “Io sono atea. Ma essendo nata e vissuta in Occidente non posso non definirmi Cristiana”. Chi ha mai letto un libro di Oriana? Nessuno. Nei talk italiani sono presenti ospiti che non hanno, il più delle volte, nessuna competenza.

Parlano di questi temi, come di cronaca, di sanità, di politica, di calcio. Restando alla cronaca ad esempio, di fronte a un talk che analizza un cruento fatto di sangue, non conoscendo le carte giudiziarie rispondono così a una domanda: “Secondo me è andata così”. Eclatante pochi giorni fa, la sera delle elezioni, lo show del direttore di un “quotidiano di nicchia”. Alle 22.58 la Meloni era una post-fascista dal passato pericoloso e dal futuro incerto. Alle 23.02 per lo stesso giornalista la Meloni era diventata una che “ha capito la società”.

Fateci caso: sono sempre gli stessi, su tutti gli argomenti. Compongo quella che è stata definita “l’arancia a spicchi”. Per fare un agrume intero, cioè il programma, occorre lo spicchio di destra, quello di sinistra, quello centrista, quello imprevedibile, un filosofo tuttofare, un nientologo in libera uscita. Un “diverso”. Da chi? Da tutto. Dai programmi della tv pubblica a quella privata è la stessa ricetta.

Molti talk sono condotti da non giornalisti, anche quando dovrebbero essere programmi di informazione. I talk del resto vivono un momento d’oro perché costano poco, riempiono i palinsesti e, soprattutto fanno opinione. In teoria. Ma è davvero così? Il messaggio è residuale. Funziona non cosa si dice, ma “come” lo si dice. Risultato: la credibilità è defunta e con essa la vera capacità di indirizzare le scelte.

Spesso i giudizi politici escono da sedicenti direttori di altri sedicenti quotidiani che vendono poche copie in edicola o anche on-line. Quindi chi rappresentano? Quasi nessuno. Ma sono il solito spicchio. I risultati alle urne lo dimostrano. Gli addetti ai lavori amano maneggiare questi spicchi, in gergo si usa dire che così “danno le carte”. Vale a dire si accontenta questo o quel gruppo di pressione.

Non è facile immaginare cosa vuol dire per i politici di qualsiasi schieramento andare nei cosiddetti talk. Affrontare inesperti da esperti. Salvi scivoloni imprevedibili, come quando un giocatore alle prime armi infila il portiere blasonato che guadagna 10 milioni l’anno.

L’ultimo anno però sembrava tutto cambiato. Mario Draghi non è mai andato in un solo talk. Forse perché la sua competenza era tale da non aver bisogno di quei salotti. Solo conferenze stampa con i giornalisti accreditati, domande reali su temi concreti. Non accettava di vedere il suo volto prima o dopo un dibattito sul divorzio tra Totti e Ilay Blasi…

Anche per le fiction siamo all’anno zero. Attualmente le fiction, anche se il più delle volte fanno ascolto, hanno dei costi di produzione altissime. Ma allora perché produrle? La risposta è nella parola stessa: finzione. Una finzione da imporre, al posto della realtà. Messaggi trasversali per assecondare forze politiche che faticano a imporsi alle urne e allora si insinuano nelle coscienze. Poi d’improvviso qualcuno torna indietro e fa bingo per caso.

In tv non si parla quasi mai di passato, di storia sociale. I nostri anziani esistono come soltanto un problema da affrontare. Assistenza, pensioni, malattie ecc… Finché non arriva “Nonno Libero” con Lino Banfi. Spaccato di una famiglia tradizionale con nonni, padri, padri, figli e nipoti. Ed è boom di ascolti, perché si è tornati alla tivù che rispecchia la vera società: valori, ideali, sentimento religioso.

Il Papa stesso tempo fa disse: fate parlare i giovani, i nipoti con i loro nonni affronteranno meglio le sfide del futuro. Lo avranno ascoltato e prodotto Nonno Libero? Chissà. Forse si spiega così l’ossessione verso i giovani nel senso di caccia agli indici d’ascolto. I programmi per giovani sono numerosi, la maggioranza, condotti da giovani con linguaggio giovane. Eppure i giovani li disertano. Del resto i millenials vanno sui social, vedono la loro tivù con un palinsesto “pret a porter” spesso in streaming. Della serie “il diavolo fa le pentole e non i coperchi”.

Ma in politica cosa vuol dire tutto questo? I politici attuali nella stragrande maggioranza si sono nutriti della comunicazione televisiva che abbiamo appena descritto. Succubi di una trasformazione della tv non più racconto della realtà concreta, quella vissuta dalle passate generazioni, non comunicano di fatto niente. Hanno perso la memoria storica. Da fautori della dittatura culturale, tipica dei regimi autoritari, ne diventano a loro volta vittime.

Basti pensare che cosa hanno detto recentemente nei talk sull’invasione russa in Ucraina. Banalità. Senza conoscere storia, analisi, valori di cui si nutrono comunque i paesi occidentali. E sono diventati complici di talk dove, invece di raccontare le vite reali in prima linea, in presa diretta con donne, bambini, adulti che fuggono dalle devastazioni della guerra, si è data la parola ai soliti “esperti”. Con molte eccezioni, per fortuna. Anzi… poche!

Eppure uno storico inglese della Seconda Guerra mondiale disse: “Una storia raccontata è una storia che non viene mai dimenticata”. Che cosa volesse dire è presto spiegato. Durante i funerali di Elisabetta II, le tivù straniere lanciavano straordinarie immagini dell’evento. In silenzio. La tv italiana diffondeva invece commenti, polemiche sulla Corona Inglese. Faceva ancora una volta talk. La solita arancia e gli spicchi.

Ora siamo in attesa di nuovi talk sulla crisi energetica. Un filosofo dirà come abbassare le bollette. Un critico d’arte come costruire centrali nucleari. Uno stilista che dobbiamo andare tutti a piedi. E salirà sul suo Suv. Intanto forze politiche date per pericolose o per morte trionferanno. Aridatece Don Camillo e Peppone…