Davvero le procure sono le più adatte a intervenire sulle questioni di famiglia?
12 Luglio 2023
di Ugo Grassi
Nelle scorse settimane in rapida sequenza le procure prima di Padova poi di Milano, con diversi strumenti giuridici, hanno impugnato gli atti di stato civile di svariate famiglie omogenitoriali. La procura di Padova ha chiesto, ai sensi degli articoli 95 e 96 del DPR 396/2000, al Tribunale di provvedere alla rettifica dell’atto di nascita di bimbi di coppie omosessuali, ed alcuni degli atti risalgono addirittura al 2017. La procura di Milano, invece, ha fatto ricorso in appello contro la decisione del Tribunale di Milano che, il 23 giugno scorso, già aveva dichiarato “inammissibile” la richiesta dei medesimi pm di annullare le trascrizioni dei riconoscimenti di bimbi, nati con procedure di concepimento assistito, di tre coppie di donne omosessuali.
Entrambe le procure hanno motivato il loro intervento sulla base di due sentenze, una della Corte Costituzionale (la n. 32 del 2021), l’altra della Cassazione a Sezioni Unite (n. 38162 del 2022). E’ importante sottolineare che nessuna delle due sentenze riguardava situazioni familiari del tutto eguali a quelle per cui le due Procure sono intervenute. La sentenza della Corte Costituzionale riguardava la richiesta, non accolta dall’ufficiale di stato civile, di registrare due gemelle quale figlie della madre “intenzionale”; la decisione, invece, della Corte di Cassazione riguardava la trascrizione negli atti di stato civile della paternità di una coppia omosessuale maschile.
Non mi soffermerò sul tema della gravidanza surrogata (o impropriamente “utero in affitto”) perché non può nascondersi che questa modalità di procreazione sottende delicate questioni etiche che vanno ben al di là della tutela delle persone LGBTQ+. Interessanti sono invece gli altri casi che coinvolgono solo coppie femminili ove il concepimento non prevede la innaturale separazione tra la donna che ha dato la vita al bimbo ed il bimbo stesso. In altri termini: sono casi ove la relazione naturale tra la gestante ed il neonato (salvo contrasti nella coppia, non diversamente dalle coppie eterosessuali) è rispettata.
Il forte elemento di diversità tra i casi valutati dalla due sentenze e quelli oggetto di impugnazione delle due Procure è dato dalla instaurazione di una condizione di fatto, giacché queste coppie avevano già ottenuto, a vario titolo, la registrazione di genitorialità negli atti di stato civile. Ed infatti proprio a Milano il Tribunale civile aveva respinto un primo ricorso della Procura osservando che, una volta trascritto il rapporto di genitorialità, rimuoverlo vuol dire privare un minore dello status di figlio, e ciò, ha affermato, non può avvenire nel nostro ordinamento.
Quando ho provato a ricostruire le vicende, sono ovviamente partito dalle due sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. In entrambi i casi si scorge (ed è ammirevole) una forte tensione emotiva dei giudici. Nella prima il giudice delle leggi denuncia un vuoto di tutela da colmare con urgenza per non lasciare privo di tutela l’interesse dei minori. Nella seconda il giudice parla di “imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori”; di “preminente interesse del minore” ed è evidente la sofferenza emotiva del giudice quando scrive “l’interesse superiore del minore è uno dei valori in cui si sostanzia l’ordine pubblico internazionale. Esso costituisce non soltanto il valore fondante di ogni disciplina che riguardi i minori, ma anche l’indice concreto ed effettivo al quale la tutela deve essere commisurata. Il fatto che l’interesse del minore debba essere oggetto di valutazione prioritaria non significa, tuttavia, che lo Stato sia
obbligato a riconoscere sempre e comunque uno status validamente acquisito all’estero.”
In altri termini le due giurisdizioni si sono trovate davanti ad una bilancia con i piatti che oscillavano in un precario equilibrio, ove basta che qualunque elemento ulteriore si posi, anche con la leggiadria di una puma, su uno dei due piatti, per far cambiare l’esito della decisione. Nel caso delle iniziative delle due Procure, i giudici hanno del tutto ignorato l’elemento dirimente della preesistenza di uno stato di fatto giacché quelle coppie omosessuali femminili già avevano ottenuto la registrazione degli atti. Ebbene, sia a Padova sia a Milano l’iniziativa della procure non tiene in alcun conto la presenza di un elemento non presente nei casi di cui alle sentenze citate: vale a dire l’instaurazione di uno stato giuridico pregresso che ha determinato un affidamento da parte di tutti i soggetti coinvolti.
Colpisce la disinvoltura, della procura di Padova che liquida il problema affermando in un caso che “la giovane età della bambina esclude che la modifica del cognome come richiesto possa avere ripercussioni sulla sua vita sociale”. A parte che molti studi dimostrano che i bimbi anche molto piccoli sono perfettamente in grado di cogliere gli aspetti emotivi e materiali di un diverso assetto della famiglia, i giudici non tengono in conto lo stress cui i genitori saranno sottoposti. E questo stress non si annuncia beneficio per le famiglie e per i bimbi. La Procura di Milano invece insiste avverso una decisione già formatasi del Tribunale; ed è una scelta non un obbligo, quella di fare ricorso. Non è la prima volta che la magistratura adotta decisioni “difficili”, e nessuna critica può assumere di essere depositaria della verità. Ma chi conosce il diritto non può ogni volta non rimanere sorpreso a fronte della immancabile giustificazione “noi applichiamo la legge”; come a dire che loro, i magistrati, si limitano ad una operazione meccanica, a cui è estranea ogni valutazione, ogni bilanciamento degli interessi coinvolti.
Una simile difesa non è onorevole, proprio perché chi la invoca sa benissimo che essa è del tutto falsa. Tra la disposizione (i bruti testi di legge) e la norma (la regola vivente che si fa evento della vita) di mezzo c’è l’intelletto, l’anima, la carne ed il sangue di chi la norma applica. Meglio sarebbe tacere o avere il coraggio di dire “noi riteniamo che…”. Sarebbe una assunzione di responsabilità morale della decisione e per quanto possa apparire contraddittorio, renderebbe la decisione assai più umana, perché la fonderebbe sulla potenziale fallacia delle umane valutazioni. E i casi che qui stiamo commentando, proprio per la diversità dei presupposti rispetto alle citate sentenze sono agli antipodi di una semplice “applicazione della legge”.
Sullo sfondo si palesa un dubbio: sono le procure gli organi più adatti ad intervenire sulle questioni di famiglia? I procuratori si formano sulla base dell’idea che essi devono “perseguire” l’azione sempre e comunque. Non dovrebbe essere così, ma così è. E forse tale attitudine, che nel processo penale si esprime con la formula “in dubio pro actione”, mal di adatta quando sono in gioco gli interessi dei minori e delle famiglie. La verità, in ogni caso, è che c’è una lacuna nell’ordinamento (è detto a chiare lettere nella sentenza della Corte Costituzionale, con buona pace della corte di Cassazione che invece afferma il contrario). E poiché in gioco sono gli interessi dei bambini, anche il centrodestra deve, pragmaticamente, trovare una soluzione.
Questa vicenda, a leggerla tra le righe, dà conto della forma mentis delle procure: quella di insistere, perseguire, promuovere l’azione “contro” l’altra parte. E’ di questi giorni il tema della separazione delle carriere. Il Pubblico ministero di oggi, codice di procedura alla mano, deve ricercare la verità (cfr. art. 358 c.p.p.). Siamo certi che un PM del tutto calato nel ruolo di “avvocato ad oltranza” della parte pubblica (che si ricordi è sempre molto più forte del privato cittadino) sia la soluzione migliore? Io, personalmente, se mai dovessi essere indagato, sarei assai più tranquillo se il mio fascicolo fosse nelle mani di un PM che fosse obbligato, ogni dieci, quindici anni, a tornare a svolgere un ruolo giudicante. La riforma della giustizia passa per molto altro, che non vedo in agenda. E sarà il caso di parlarne in altra occasione.