Dimenticata “la lingua”, va di moda “l’antilingua” (prima parte)

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Dimenticata “la lingua”, va di moda “l’antilingua” (prima parte)

01 Ottobre 2010

Nel secondo capitolo della Genesi si legge: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome”. Bei tempi. Tempi di chiarezza e di certezze. Ognuno aveva il suo nome e non c’era bisogno né di sinonimi né di contrari. Oggi, invece, stiamo perdendo la capacità di dare il nome giusto alle cose giuste in tutti i campi, anche in Geopolitica. Come ad esempio nel caso del terrorismo, del quale esistono decine di definizioni, ma nemmeno una che sia universalmente accettata. Chi è “terrorista” per qualcuno è “combattente per la libertà” per qualcun altro. E viceversa.

Oggi vediamo tutto attraverso prismi deformanti, e questo non giova né alla chiarezza, né alle certezze. E ne risulta deformata anche la lingua. Italo Calvino, in un articolo apparso nel 1965 (vent’anni prima di morire) sul quotidiano “Il Giorno”, parlò dell’antilingua, ovvero quell’italiano surreale che ha contagiato il nostro linguaggio quotidiano. Da allora fino ad oggi l’antilingua ne ha fatta, di strada. I gerghi specializzati sono esempi lampanti di antilingua. Nei verbali delle forze dell’ordine il semaforo non è semplicemente verde, ma è “proiettante luce verde” e non si ammetterà mai che qualcosa si trovi dietro, bensì sarà “situato in posizione retrostante”. In militarese la zona d’intervento è il “teatro” e il nemico che ci spara addosso è “personale armato in atteggiamento offensivo”. Nel linguaggio ferroviario il biglietto non è il biglietto ma il “titolo di viaggio”, che non va mai timbrato bensì “obliterato”. In diplomatichese non si dichiara né si espone qualcosa ma “si fa stato di…”. Nel linguaggio giurisprudenziale, che ha più familiarità con il latino che con l’italiano, gli arzigogoli tecnici si sprecano, salvo dar luogo a mostri giuridici quando si scopre che il signor Dante Causa è sconosciuto all’anagrafe. In burocratichese, poi, “io” non sono io bensì “il sottoscritto”, la legge o il regolamento non trattano qualcosa ma “recano norme” e -orrore fra gli orrori- guai a dire “non lo so” (troppo semplice!) ma si deve dire “non ne ho contezza”.

Restando confinati in ambiti ristretti, tuttavia, i gerghi specializzati fanno poco danno. I guai cominciano quando la realtà viene linguisticamente deformata su vasta scala, coinvolgendo tutta la pubblica opinione. Un “non ne ho contezza” pronunciato da un triste impiegato della pubblica amministrazione resta confinato nell’angusto spazio del suo mesto ufficio, ma un’insegna col nome “Bottiglieria”, “Frullateria” o “Yoghurteria” è alla portata di tutti e getta semi bacati nei cervelli dei passanti. E passi pure per bottiglie, frullati e yogurt, che dopo tutto sono termini di uso corrente, ma le cose peggiorano nei casi dei distributori di sacchetti per “deiezioni canine” o delle celebri carrozzelle romane che diventavo “vetture a trazione ippica”. Un aspetto eclatante di deformazione della realtà è la deliberata disinformazione, la “disinformacija” di cui erano maestre l’ex Urss e l’ideologia comunista e che ancora sopravvive nell’odierna Russia; basti pensare a come sono state gestite mediaticamente la tragedia del sottomarino “Kursk” o la mancata tragedia del batiscafo “Priz” (reticenze, ritardi, menzogne, smentite, mezze verità, doppie bugie,…). L’esempio sovietico ha “fatto scuola” anche in Italia; ne abbiamo un chiaro esempio nell’affermazione “In Iraq siamo truppe occupanti”, apparsa con grande rilievo su un certo quotidiano nell’estate 2005 e sbugiardata a dovere da Magdi Allam il giorno successivo su un altro quotidiano (ma intanto i lettori che avranno creduto a quella menzogna non saranno stati pochi).

La disinformazione, però, che è sempre in malafede e quindi incurabile, esula da queste riflessioni. Esaminiamo invece altri due nemici della verità al servizio dell’antilingua: la distorsione e la semplificazione che, essendo dettate non necessariamente dall’ideologia ma anche da ignoranza e superficialità, sono talvolta in buona fede, e quindi curabili. Cominciamo dalla distorsione e richiamiamo alla mente gli attentati terroristici di Londra del 7 luglio 2005. “Uccisa da chi? Non si sa…!”, ha affermato in lacrime davanti alle telecamere un congiunto di Benedetta Ciaccia, la nostra connazionale vittima delle bombe nella metropolitana londinese. Un disorientamento a prima vista difficile da comprendere, perché in realtà si è saputo benissimo fin da subito “chi” l’ha uccisa, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo. Si conoscevano perfettamente i nomi e i cognomi degli attentatori, le loro storie, i loro paesi di origine, le loro parentele e amicizie, la loro religione, la loro macabra ideologia, si sapeva e si sa tutto di tutto e di tutti. Ma a ben pensarci, tale disorientamento non desta troppa meraviglia, se si fa mente locale al fatto che uno dei più diffusi quotidiani italiani, il giorno seguente quegli attentati, titolava a tutta pagina “Il terrorismo attacca Londra”. Proprio così: “il terrorismo”. Non “Al Qaeda” o “i fondamentalisti islamici”, confondendo in tal modo palesemente gli autori della strage con il metodo sciagurato che hanno scelto. Come dire che l’Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo nel 1914 è stato ucciso dalla polvere da sparo, non dall’estremista serbo Gavrilo Princip o dall’organizzazione “Mano nera”. O come dire che la maratona alle Olimpiadi di Roma del 1960 è stata vinta dai piedi scalzi, non dall’etiope Abebe Bikila.

Nel settembre del 1939, invece, sarebbe stato impensabile, assurdo trovare in edicola un quotidiano con il titolo “La blitzkrieg attacca la Polonia”. Nel 1940 sarebbe stato impossibile leggere il titolo “Il bombardamento attacca Londra”, così come nel dicembre del 1941 sarebbe stato inconcepibile, demenziale leggere su un qualsiasi giornale “Il bombardamento attacca Pearl Harbor”. E nell’agosto del 1945 solo uno squilibrato mentale avrebbe potuto titolare “La bomba atomica attacca Hiroshima e Nagasaki”. A quei tempi nessuno aveva difficoltà ad individuare i responsabili degli eventi nella Germania nei primi due casi, nel Giappone nel terzo caso e negli Stati Uniti d’America nel quarto caso. Tutt’al più venivano usati termini come “il Terzo Reich”, “la Germania nazista”, “il Nazismo”, “il Sol levante”, “l’America”, “gli Stati Uniti”, “Hitler”, “Hiroito”, “Truman”, ma a nessuno veniva in mente di confondere l’autore con il suo metodo di lotta. Oggi invece il titolone “Il terrorismo attacca Londra”, per quanto profondamente errato esso sia, non meraviglia nessuno, talmente siamo abituati alla quotidiana, sistematica distorsione dei fatti. Oggi confondiamo con la massima naturalezza il nemico con il suo metodo di lotta. Oggi per ignoranza, pressappochismo o -peggio ancora- per deliberata scelta, evitiamo di usare il termine “fondamentalismo islamista” e lo sostituiamo con il metodo di lotta che esso usa, nella fattispecie il terrorismo.

Questa incapacità di definire correttamente le cose è parente stretta di quel diffuso buonismo per cui la terminologia, già da decenni, si sta evolvendo (o meglio: involvendo) nel mondo occidentale e soprattutto in Europa (e in nessun Paese come in Italia). Gli esempi si sprecano. Ad esempio, colei che negli anni Cinquanta dello scorso secolo veniva chiamata senza tanti complimenti “serva” (termine che poi non era molto diverso da quello -“schiava”- in auge due o tremila anni fa) è diventata negli anni Sessanta “domestica”. In seguito, per conferire a costei una dignità superiore a quella di altri “domestici” (nella fattispecie gli animali domestici e gli elettrodomestici), è diventata negli anni Settanta “collaboratrice famigliare” e poi, negli anni Ottanta, semplicemente “colf”. Un termine perfetto, quest’ultimo: sembra straniero e non dice nulla. Un altro esempio? Colui che oggi viene chiamato “gay” è passato negli ultimi decenni attraverso una sequela di epiteti irripetibili, il più tenero dei quali era “pederasta”. Un terzo esempio? L’antico “lupanare”, col tempo, è diventato “bordello”, poi “casino”, in seguito “casa chiusa”, “casa di tolleranza” e infine, per non dover spiegare nei confronti di chi e di cosa si doveva esercitare tale tolleranza, è diventato “casa di appuntamenti”.

E che dire del vituperato “spazzino” diventato poi un rispettato “netturbino” e in seguito addirittura “operatore ecologico”? E che dire del negletto “sguattero” che oggi è un rinomato “operatore della ristorazione” o di colui che per secoli veniva chiamato con sufficienza “bidello” e che oggi è un “operatore scolastico” e che -in quanto tale- taluni confondono col docente, con l’insegnante, col direttore, col preside, col magnifico rettore? E così il cieco è diventato “ipovedente”, lo “storpio” è diventato “disabile” e poi addirittura “diversamente abile”, mutando tranquillamente i difetti in pregi, e cambiando le connotazioni negative in positive. E meno male che i manicomi sono stati aboliti, altrimenti i loro ospiti verrebbero definiti non “matti” ma “diversamente savi”.

© Giornale di Bioetica