E se la sfida lanciata da Mosca all’Occidente fosse solo un azzardo?
27 Agosto 2008
Siamo alle solite! Da quando è iniziata l’attuale crisi georgiana, fino ad oggi, il leit motiv della stampa italiana, se non quella dell’Europa continentale, è stato quello di sostenere che la vera vincitrice di questo confronto era stata l’arrogante, ma, in fondo giustificabile, Russia, mentre ad essere sconfitti erano gli Stati Uniti.
Dato questo assioma era consequenziale che Saakashvili fosse bollato come un governante – nel caso più generoso – avventato, quando non velleitariamente provocatorio. Persino il presidente emerito Cossiga non aveva perso occasione per “picconare” le ragioni del piccolo stato caucasico. Parimenti, di fronte ad una supposta sconfitta di Washington che conduceva la solita politica internazionale irresponsabile, assurgeva – a partire dai lusinghieri commenti di Sergio Romano – a modello di crisis management la condotta dell’Europa e delle sue cancellerie.
Questa interpretazione degli eventi, così logica ma così irreale, sopravvive solo se si sposa integralmente la vulgata antiamericana così cara alla stampa europea, ma non resiste ad una analisi che, rompendo gli schemi tracciati dai maître à penser nostrani, guarda ai fatti con l’occhio dell’analisi storica e militare dei fatti.
E’ indiscutibile che le operazioni militari siano state iniziate da Tbilisi che, pur nella legittimità formale di voler restaurare la propria autorità su provincie incluse nel territorio georgiano, ha rotto alcuni precari equilibri regionali. E’ altrettanto doveroso, comunque, interrogarsi su quanto questi equilibri sarebbero sopravissuti nel tempo. Da anni Mosca soffiava sul fuoco indipendentista dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale. Non si deve dimenticare che con il beneplacito della Federazione russa la prima aveva eletto un proprio parlamento (4 marzo 2007) e nella seconda era stato indetto un referendum sull’indipendenza (12 novembre 2006). Oltre a ciò Mosca aveva concesso la cittadinanza russa a decine di migliaia di persone appartenenti a queste piccole etnie.
Ciò premesso è lecito chiedersi se è stato più destabilizzante l’inutile intervento georgiano oppure la politica del Cremlino. A costo di fare da cassa di risonanza a Saakashvili, è difficile affermare che egli menta quando afferma che i russi si preparavano da mesi all’intervento. Da oltre un anno la Russia cercava una nuova dimensione nell’arena mondiale. Con Eltsin il ruolo internazionale della Federazione si era molto ridimensionato, così come vennero drasticamente ridotte le forze armate sia sotto il piano quantitativo, sia sotto quello qualitativo. La Russia – con il prezzo del gas e del petrolio ai minimi storici – non poteva permettersi di mantenere la vecchia macchina militare sovietica. Quando però, sotto Putin, le entrate sono aumentate diventava una necessità mostrare al mondo che la Russia era la grande potenza di sempre. Da qui nasce la muscolare politica dell’ex colonnello del KGB.
Vi sono però dei limiti oggettivi nella nuova macchina militare. Per quanto rafforzato l’esercito russo non è quello sovietico e, quindi, il possibile obiettivo dimostrativo non poteva essere uno stato grande come l’Ucraina. L’unico obiettivo possibile era il piccolo stato caucasico. A buon testimone delle parole del Presidente georgiano sono le stesse operazioni militari di Mosca. Non può non sorprendere la rapidità d’azione delle forze russe che sono entrate in Georgia 24 ore dopo l’inizio della crisi. Se si confronta questo dato con la lentezza di mobilitazione e di manovra che ha caratterizzato le forze russe dai tempi dello zar e che si è protratta per tutto il regime sovietico e che è stata ereditata dalla confederazione russa, così come dimostrano le operazioni in Cecenia, è fortemente probabile che le affermazioni del presidente georgiano rispondano al vero. Il Cremlino, non solo, aveva pianificato l’operazione (cosa logica in un’ottica di programmazione militare), ma aveva già schierato le forze a ridosso dei confini. Non ci sarebbe da stupirsi se si scoprisse che Mosca aveva una “talpa” all’interno del governo di Tbilisi.
A maggior riprova della preterintenzionalità dell’azione russa sta la tipologia dell’intervento: in profondità, ben oltre i confini delle provincie contese e con un impegno di oltre 10.000 unità. La quantità appare sproporzionata sia nei confronti delle motivazioni ufficialmente addotte da Mosca per giustificare il suo intervento, sia in rapporto alle forze georgiane. L’esercito georgiano, infatti, conta meno di 19.000 unità, appena 100 carri armati (T72 e T55) ormai superati e solo 9 aerei da combattimento Su-25, che in Occidente, probabilmente, sarebbero rottamati.
L’altro mito della crisi caucasica, quello della compattezza e dell’efficacia della politica europea, frana, altrettanto, di fronte all’evidenza dei fatti. I sostenitori di questa teoria, forse, non si sono accorti che quella parte dell’Europa entrata nell’Unione nel 2004 si è schierata a fianco di quel piccolo stato mandando a Tbilisi – in piene operazioni militari – delegazioni ai massimi vertici istituzionali che dichiaravano il proprio sostegno alla causa georgiana. Queste delegazioni rappresentavano quei paesi europei che un tempo appartenevano al Patto di Varsavia e che, ancora prima, erano nell’orbita del potere zarista. Era l’Europa occidentale a sollevare dei distinguo, pur all’interno di una critica della politica moscovita. I toni si differenziarono. La Germania era quella che sollevò le critiche più nette, fino a minacciare un appoggio alla candidatura georgiana per l’entrata nella Nato. La Francia, anche per dovere d’ufficio essendo presidente di turno del Consiglio europeo, tenne una posizione più moderata. La posizione italiana risentì invece, dei rapporti personali di Berlusconi con Putin e con Bush.
Nel complesso l’Europa spese tempo ed energie per favorire il ritorno in statu quo ante. Il tentativo è stato patetico. Da un lato Mosca si è fermata solo dopo aver raggiunto i suoi obiettivi tattici (dare il segnale che poteva occupare tutto il territorio georgiano con facilità). L’occupazione di Tbilisi non era alla portata diplomatica russa, perché i combattimenti si sarebbero svolti di fronte alle telecamere occidentali e questo avrebbe potuto generare reazioni non prevedibili e controllabili. Dall’altro lo stesso status quo ante è un principio che non si applica alla guerra. Coma Fred Iklè ha delineato in pagine decisive, la guerra modificando immancabilmente – nello svolgimento degli eventi – i suoi presupposti, rende impossibile la perfetta “restaurazione”. E’ un fatto che nessuna guerra è mai terminata con un ritorno allo stato precedente. La crisi caucasica non fa eccezione. Mosca ha fatto intendere al mondo di voler condizionare – visto che l’annessione non è possibile – l’azione politica di quegli stati che appartenevano all’Unione Sovietica e ricattare con l’arma dei gas naturali l’Europa occidentale.
I paesi europei sembrano aver dimenticato una lezione della Storia. L’opzione diplomatica ed il dialogo sortiscono gli effetti sperati solo se esiste una proporzionale minaccia militare. Il dialogo riassunse gi interessi americani e sovietici durante la “crisi dei missili”, ma vi è da notare che Kennedy e McNamara diedero corpo alle loro parole schierando una flotta con l’ordine di sparare sui convogli russi. La domanda cruciale, però, è un’altra. Quella russa è stata una operazione politico-militare riuscita oppure un azzardo che rischia di ritorcersi contro Mosca stessa. Il vero apprendista stregone è stato l’inesperto ed un po’ sprovveduto presidente georgiano o il tandem Putin-Medvedev?
Cosa ha ottenuto, fino ad ora, il Cremlino? Ha occupato, per poi riconoscerle come stati indipendenti, due piccole province di un modesto paese caucasico. Certamente ha dato il segnale di non temere la contesa con l’Occidente, ma non si è certi sulla sua effettiva capacità di condurre questo confronto. L’occupazione di parte della Georgia con il conseguente riconoscimento ufficiale dell’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale appare, da un lato, una ripicca – neanche troppo celata – nei confronti dell’indipendenza kossovara sostenuta da Washington (il panslavismo “grande russo” è lungi dall’essere retaggio del passato zarista), dall’altro una manovra di dissuasione verso l’allargamento ad Est della Nato.
Se questi erano gli obiettivi Mosca può vantare il raggiungimento del solo primo e controproducente punto. Infatti giocare con le aspirazioni nazionali dei popoli è per Mosca estremamente pericoloso. Nel suo immenso territorio la Russia è costellata da una infinità di identità nazionali che potrebbero legittimamente richiedere l’indipendenza. Sia sul campo militare, sia su quello diplomatico sarà, ora, più complesso per Mosca tenere a bada i ceceni che non hanno meno diritti degli osseti e degli abkazi. Certo l’Occidente non ha mai avuto interesse a soffiare sul fuoco ceceno, considerati i rischi di una escalation della presenza islamica fondamentalista nella regione. Ma da ora non è escluso che eventuali richieste di autonomia, se non di indipendenza, da parte di altre etnie presenti nella Federazione vengano appoggiate da Washington.
Oltre a ciò – come era stato evidenziato ieri da Cazzulini su queste colonne – il riconoscimento dell’indipendenza delle due province ha provocato un serio irrigidimento delle posizioni occidentali, anche europee. Sia Berlino, sia Parigi, per non parlare di Londra, anche se dichiarano, giustamente, di non voler interrompere il dialogo con Mosca, hanno fatto intendere che non vi sarà una politica di appeasement verso la Russia. Persino il nostro ministro degli Esteri, anche se velleitariamente vorrebbe offrire a russi e americani un tavolo di concertazione, ha cominciato ad alzare i toni. Come ricordato, già da giorni il cancelliere Merkel sostiene che la richiesta di Tbilisi di adesione all’Unione Europea e alla Nato andrà inserita nelle urgenze dell’agenda internazionale.
Ancor più i paesi che un tempo erano nell’orbita sovietica e che secondo le aspettative russe avrebbero dovuto frenare i loro sentimenti “pro Nato”, stanno richiedendo a gran voce lo spiegamento di installazioni militari della Nato per controbilanciare l’influenza russa. Dopo Varsavia, che ha firmato un accordo con Washington per la creazione di una rete difensiva antimissilistica, ora è venuto il turno delle capitali baltiche e di Kiev nel collaborare alla creazione del nuovo Sistema di difesa strategica.
D’altronde nel futuro la Russia non potrà rompere la collaborazione con l’Occidente, come invece sta minacciando. Se la lotta al terrorismo islamico interessa molto all’America e all’Europa, interessa ancor più a Mosca minacciata in gran parte del suo immenso territorio. Questa volta l’Apprendista stregone del Cremlino ha azzardato troppo.