Europa, non c’è da festggiare

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Europa, non c’è da festggiare

27 Marzo 2007

Il 25 marzo si è festeggiato il 50° anniversario dei Trattati di Roma, che diedero vita alle le Comunità Europee, primo passo verso quelle istituzioni che sono andate a costituire, nel 1992, l’Unione Europea. Un suggestivo spot televisivo finanziato dal Governo ce l’ha ricordato per qualche giorno, e anche con una certa insistenza. Eppure, non si riesce a comprendere cosa ci sia da festeggiare. Se dovessimo infatti compiere un bilancio cursorio del processo di integrazione europea, ci renderemmo conto che ci troviamo di fronte a un grande malato – il vero grande malato del XXI secolo – cui medici assai interessati continuano a somministrare farmaci che lo tengono in vita ma che al contempo distruggono i suoi organi vitali.

Piccola analisi ad uso degli scettici

L’Unione si caratterizza per un altissimo deficit di democrazia. E se gli europei – abituati a delegare ad altri le proprie responsabilità civiche, come sollevati dal poter incaricare qualche autocrate dei propri problemi – sono poco sensibili al tema, i cugini d’oltreoceano si sono allarmati centrando appieno la questione, notando come la UE è ormai la macchina per decidere al meglio ciò di cui i cittadini hanno bisogno, senza però chieder loro come la pensano. Eccessivo? No, è lo stesso Prodi ad averlo dichiarato, in veste di Presidente della Commissione: «I governi nazionali sono vincolati ai cicli elettorali dei loro Paesi. Agende domestiche di breve respiro possono così deviarli dal considerare gli interessi a lungo termine dell’Europa come totalità». In confronto i bolscevichi erano dei dilettanti.
Di fatto, oltre l’80% della nostra legislazione viene ora decisa a Bruxelles, e nemmeno dall’Europarlamento, bensì dal Consiglio dei Ministri. E oltre un terzo dell’attività delle assemblee dei paesi membri riguarda la traduzione in leggi nazionali di direttive comunitarie.
E fa parte proprio di questi grandi interessi, di queste “magnifiche sorti”, il progetto “Eurabia” che ha come fine la creazione d’un blocco euro-arabo cementato dall’immigrazione islamica in Europa, che vedrà mutare i propri equilibri demografici e la propria identità culturale. Senza che, nel frattempo, si sia domandato il parere ai suoi abitanti.
A questo si aggiungono (statuiti nel Trattato Costituzionale) il chiaro proposito di disgregare la famiglia “tradizionale” nonché i finanziamenti comunitari per la ricerca sulle staminali embrionali – anche coi soldi italiani, in barba alle nostre stesse leggi e alla volontà del nostro Paese.
Passiamo poi all’economia, dove tutti procedono in ordine sparso per far fronte alla crisi del “modello sociale europeo” – e meno male che è così, perchè dove si trova una linea comune si sfiora la catasftrofe.
Diamo un’occhiata alla Pac, la Politica agricola comune: essa infatti assorbe oltre il 40% delle risorse comunitarie, uno spreco di denaro enorme, e non solo.

L’effetto più importante però è la distorsione del mercato e delle economie agricole (cosa che genera un aumento dei prezzi e un inadeguato livello di produttività), nonché l’esclusione degli ottimi prodotti africani dai ricchi mercati europei, rendendone impossibile lo sviluppo, cosa cui si tenta poi di far fronte con la cooperazione internazionale, tasto sul quale l’UE batte non poco e che perlopiù si traduce in assegni staccati in favore delle oligarchie africane, peggiorando ancor più la situazione.
In realtà, la presunta spinta “liberalizzante” impressa da Bruxelles, alla quale spesso si aggrappano i nostri politici, non ha nulla a che fare con il liberalismo classico. Invece dell’area d’economia aperta che ancora qualcuno s’attarda a difendere, ci ritroviamo una socialdemocrazia travestita da libero mercato, ma che in realtà è un’ardita ipotesi costruttivista finalizzata alla creazione d’un “mercato perfetto”, regolato da agenzie intergovernative piuttosto che dalle libere scelte degli individui.
Peraltro, quel che i cittadini si aspettano come funzione principale dell’UE (la sua presenza internazionale) assorbe poco più del 10% del bilancio comune. E nemmeno hanno dato risultati apprezzabili i tentativi di coordinamento: la posizione sulla guerra irachena ne è un esempio, con due paesi (Francia e Germania, cui si è poi accodato il Belgio) che hanno dichiarato la loro contrarietà senza consultare gli altri, in maggioranza favorevoli all’attacco a Saddam. Altro che prendere il proprio posto nell’”impero a tre teste” necessario a garantire la sicurezza globale.
A tutto questo, la Costituzione arenata (dal suo stesso peso, probabilmente) ha dato il coronamento, cui ora si tenta di far fronte con ulteriori compromessi.
Insomma, uno sguardo disincantato ci farebbe vedere quanto siamo distanti dalla realizzazione del sogno – liberale – degli Stati Uniti d’Europa, nonché dalle premesse conservatrici dei suoi padri.
Siamo anzi sul versante opposto.

Fine dell’Europa, piccola fine della Storia

L’Unione Europea, nella sua forma attuale, è il parto di decenni di compromessi penosamente rattoppati col nastro adesivo dallo statalismo moderno, accolto come corollario accettabile dalle élites politico-economiche pur di raggiungere l’obiettivo dell’unità continentale.
Ma questa scoria è ormai l’elemento dominante.

Così com’è, l’UE assomiglia pericolosamente, troppo pericolosamente, al sistema che in modo più perfetto si attaglia alle politiche dello statalismo postmoderno, lo stesso che, tramite la pervasività soft del suo totalitarismo a bassa tensione sta riuscendo a rimodellare la società a colpi di leggi per i diritti incivili, e a conferirle quel volto che il marxismo, col suo troppo palese autoritarismo, non era riuscito a darle e che ora il progressismo buonista ha quasi completato a colpi di minute tessere, quasi si trattasse del mosaico del riformismo.
Il fine è chiaro, e basta leggerlo nei parti legislativi delle istituzioni comunitarie: “scrostando” in pochi decenni il deposito di secoli di tradizione, i nuovi socialisti – che di questi tempi hanno preso a farsi chiamare riformisti, democratici o persino liberali (rendendo manifesta la crisi del liberalismo alla base della moderna crisi europea) – vogliono arrivare a nullificare le esperienze dell’uomo occidentale.
Insomma, la tragedia nichilista del Transumanesimo, per decreto europeo.

I politici europei, lontani da qualsiasi realismo e ridicolmente distaccati dagli avvenimenti globali, tentano di realizzare nei limitati confini Vecchio Continente quella sorta di “paradiso immanente” che è la fine della storia preconizzata da Francis Fukuyama. Un mondo perfetto, liberato dalla paura, dalle differenze, dominato da una compiuta liberaldemocrazia intesa come automatico “apparire” delle leggi giuste capaci di garantire una vita ideale ai suoi cittadini (e non solo di garantirne i rapporti). Un sogno dettato dalla paura del conflitto umano e che vuole cristallizzare una situazione storica, ma che finirà per trasformarsi in un incubo simile a quello dell’Unione Sovietica, se non peggiore.
Qualche mese fa, Paul Belien, guru del conservatorismo fiammingo, suggeriva sul Brussels Journal che per salvare l’Europa – intesa come il “continente culturale” che nonostante tutto si regge ancora su fondamenta classiche e bibliche – bisognerebbe dar battaglia all’Unione Europea. E non sono pochi ad essersi convinti che i veri europeisti dovrebbero cominciare ad opporsi all’UE.
Forse dovremmo cominciare a convincercene tutti.