Evja, l’agricoltura 4.0 e il Sud che cresce
02 Settembre 2022
C’è un’Italia che corre, innova e rende il mondo un posto migliore. La tecnologia è sempre stata alleata nell’uomo per il superamento di difficoltà che sembravano insormontabili. Una delle sfide del nostro tempo è la sostenibilità ambientale che va ricercata in diversi ambiti, tra cui l’agricoltura. Evja, un’azienda innovativa nata nel 2015 a Napoli, prova a coniugare l’innovazione tecnologica con l’agricoltura, al fine di renderla sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico come tiene spesso a ribadire Davide Parisi, CEO e co-founder (nella foto).
Dottor Parisi, com’è nata l’idea di Evja?
È nata da un’idea mia e di Antonio Affinito, i due fondatori iniziali di Evja. Era il 2015, volevamo portare alcune tecnologie, quindi della IoT e poi del machine learning, in settori tecnologicamente già recettivi ma poco innovativi come l’agricoltura. Va sottolineato che sette anni fa il grado di innovazione era completamente differente in questo settore. Inoltre, usare queste tecnologie in ottica di sostenibilità era il nostro obiettivo ma anche una novità.
Ai tempi quanto era diffusa l’agricoltura di precisione?
Fino al 2019-2020 soltanto l’1% della superficie totale nazionale era destinato all’agricoltura di precisione. L’idea fu quindi di portare queste tecnologie all’interno del campo agricolo, in particolare su due focus fondamentali: l’irrigazione e la difesa, a cui sono collegate la modellistica predittiva di tipo fisiopatologico, la nutrizione e tutti gli sviluppi successivi che si sono poi concretizzati negli anni.
Che tipo di mercato avete provato ad aggredire all’inizio?
L’idea fu di partire da un mercato specifico: quello orticolo. In una prima analisi di mercato, in fase di validazione e start up, li abbiamo vagliati tutti. Tuttavia, quello orticolo presentava dei problemi molto concreti a cui la tecnologia poteva rispondere al meglio. L’utilizzo di fertilizzanti, agrofarmaci e formulati biologici, abbinati a cicli molto brevi di raccolta di colture abbastanza sensibili, quindi con un ciclo di vita come shelf life molto corto, impongono ai produttori di rispondere a esigenze legislative, qualitative e di mercato. L’impatto di queste tecnologie è misurabile sia in termini di residualità sia di sostenibilità.
Come si è evoluta la composizione del team dal 2015?
Siamo partiti in tre, oggi siamo 14 persone, tra fissi e collaboratori esterni.
Che tipo di partner di ricerca, tecnologici e finanziari avete?
Collaboriamo principalmente con istituti di ricerca come il CNR, il CREA, l’Università di Napoli Federico e tutti gli stakeholder che sono coinvolti nei progetti di ricerca sui quali lavoriamo. Come partner tecnologici abbiamo Libelium, Amazon che sono fornitori e con i quali sviluppiamo dei progetti di innovazione, ma anche produttori di mezzi tecnici come Idromeccanica Lucchini e ABACO, che si occupa di software di smart farming. E poi, diciamo anche dei canali distributivi, come i produttori o i distributori di mezzi tecnici dell’agricoltura.
Che tipo di rapporto avete coi partner istituzionali di ricerca?
L’agricoltura è un settore scientifico in cui si intersecano microbiologia, agronomia, climatologia, meteorologia e tante altre varie componenti. Quindi noi riteniamo che il supporto scientifico e in particolare istituzionale degli istituti di ricerca sia fondamentale. L’abbiamo visto qui in Italia, ma anche in Olanda. Abbiamo sempre delle partnership che sono anche localizzate nei Paesi in cui lavoriamo. Avere un partner scientifico che conosce il territorio e la sua storicità garantisce sicuramente un forte vantaggio competitivo.
Il vostro motto è “se non abbiamo le scarpe sporche di terra a fine giornata, vuol dire che oggi non abbiamo lavorato”, come mai insistite su questo tasto?
Perché è effettivamente la realtà dei fatti. Penso che nell’agricoltura l’automazione totale non si riuscirà mai a raggiungere, se non per alcune tipologie di colture o di ambienti di coltivazione che possono essere le serre super tecnologiche. Però, in generale, l’agrotech è soprattutto un mix di una serie di elementi che sono naturali e altri che sono tecnologici lavorano in campo. Noi seguiamo direttamente queste attività, così come seguiamo i produttori sia nella parte di trasferimento tecnologico, quindi nell’utilizzo del sistema. Alcune attività, in particolare la modellistica predittiva, non possono prescindere da un riscontro che quello all’interno dell’ambito che possiamo definire operativo c’è che è il campo agricolo.
Quindi la tecnologia per voi svolge una funzione di supporto?
Nella nostra visione, in questo settore la tecnologia è uno strumento che aiuta le aziende agricole e l’agricoltura. La tecnologia è un supporto per l’esperienza degli agricoltori, traduce la ricerca scientifica in prodotti utilizzabili e pronti ad essere implementati sul mercato. Però il tutto non può prescindere da quella che è l’attività che viene fatta in campo dagli agricoltori.
Avete incontrato delle ostilità da parte dei produttori nei confronti delle vostre soluzioni tecnologiche?
Essendo stati tra i primi a proporre soluzioni di questo tipo nel 2015, quando la tematica della sostenibilità non aveva il peso di oggi, all’inizio abbiamo trovato barriere dovute per lo più all’esperienza. Però abbiamo notato un netto cambiamento anche con le vecchie generazioni di agricoltori, in particolare negli ultimi quattro anni. Un po’ perché le problematiche climatiche sono diventate enormi, un po’ perché la tecnologia ha dei tempi di maturazione fisiologici. Non vedo un problema di ricettività. Se la tecnologia resta uno strumento che supporta e non sradica la figura dell’agricoltore, che poi è al centro dell’azienda agricola e di tutta la produzione, le barriere diminuiscono di sicuro. Quando invece si ha un approccio tecnologico dirompente e non sistemico, si incontrano delle perplessità.
Il sistema OPI il prodotto con cui siete entrati nel mercato. Se dovesse spiegare a qualcuno che non è esperto del settore come funziona, come lo farebbe?
Ci sono dei sensori che monitorano lo stato delle colture da un punto di vista climatico, quindi delle centraline che montano dei sensori di umidità, temperatura, bagnatura della foglia, contenuto volumetrico e di acqua nel terreno. Tutti questi dati vengono immagazzinati da un server che può essere all’interno dell’azienda o in cloud e vengono visualizzati su uno smartphone o un tablet, ma anche da remoto sul PC in tempo reale. Da questi dati si sviluppano poi dei modelli matematici che suggeriscono degli alert di rischio, come l’arrivo di una malattia o del momento migliore per irrigare con la relativa quantità di acqua. In parole povere è un sistema di monitoraggio e supporto alle decisioni. Fornisce quindi delle informazioni che permettono di capire se la pianta oggi deve bere, cioè se la pianta oggi ha fame o se sta arrivando una malattia e di intervenire con tempestività.
Perché avete scelto di partire da ortaggi a foglia larga?
Innanzitutto, è importante sottolineare che parliamo di ortaggi di prima gamma, ovvero che non hanno subito nessuna lavorazione, e di quarta gamma, come l’insalata in busta. Per loro conformazione hanno undici o dodici cicli l’anno, caratterizzati da un’alta continuità. Questo ci ha permesso di entrare in un segmento già tecnologicamente recettivo che è stato un banco di prova molto veloce. I periodi estivi ci permettevano di avere delle metriche di prodotto continue, così facendo siamo stati in grado di velocizzare molto la parte di sviluppo.
E poi siete passati anche ad altre colture…
Ci siamo espansi su tutte le orticole sotto serra e poi su specifici ortaggi per quanto riguarda le colture di pianura. Preciso che noi lavoriamo principalmente in coltura protetta, che si differenzia dalla classica serra nordeuropea e dalle serre mediterranee.
Ognuna di queste colture utilizza argomenti predittivi diversi?
Esattamente. Il nostro è un approccio olistico. La piattaforma è la stessa. Cambiano però i modelli predittivi, i modelli irrigui, i modelli di crescita che si sono poi relazionati per ogni singola cultura. Un pomodoro non ha le stesse esigenze irrigue o che ha un’insalata.
I vostri competitor utilizzano un approccio simile al vostro oppure tendono ad aver segmentato di meno i prodotti rispetto al mercato?
Segmentano meno i prodotti rispetto a quello che è il mercato attualmente. Siamo una delle poche aziende che lavora in maniera specialistica sulle colture protette. Soprattutto il nostro è un prodotto scientifico. Non è una soluzione dove inserisco un sensore in campo o vedo il dato in tempo reale. Noi studiamo ogni cultura con i nostri partner scientifici, fisiologia, malattie fungine, stadi idrici, traspirazioni per tradurle in un modello matematico di supporto. Molto spesso molti competitor utilizzano dei modelli statistici che si differenziano da quelli fitopatologici o fisiologici.
Perché?
Il nostro modello si basa su dati biologici che vengono trasformati in un modello matematico. I modelli statistici, invece, partono da dati storici o da semplici algoritmi di correlazione di dati. Il risultato è l’elaborazione di un indice che è di per sé è molto probabilistico. Manca un approccio così verticale e scientifico.
La vostra tecnologia è brevettata?
Sì, è brevettata a differenza di quella della concorrenza. Il brevetto è di tipo internazionale e stiamo procedendo con le varie procedure di internazionalizzazione. Si tratta dell’unico brevetto in Italia in questo settore.
I vostri clienti sono solo in Italia?
Ad oggi l’80% sono italiani, su tutto il territorio nazionale, e il 20% sono esteri. Parliamo di Qatar, Nord Africa, Messico, Bangladesh, ma anche Spagna e Olanda.
Su quali mercati siete più attivi?
In Europa siamo attivi su più mercati. Nel nostro Paese, invece, abbiamo una forte presenza, pari al 70% dei produttori, per quanto riguarda l’insalata, ma anche per il pomodoro da industria.
In che modo questo tipo di agricoltura può aiutare a ridurre l’impatto ambientale nell’ambito della transizione ecologica?
Aiuta soprattutto per quanto riguarda il problema dell’acqua, fornendo un’informazione utilissima sull’effettivo fabbisogno idrico di una pianta. A seconda dello stress climatico che subisce la pianta, il sistema suggerisce quale sia la quantità necessaria. Così come si evitano gli sprechi, in questo modo si evita anche di dare troppa poca acqua.
Il sistema aiuta anche a ottimizzare l’utilizzo degli agrofarmaci?
Sì, è un tema fondamentale che incide sulla qualità e sulla salubrità del prodotto. Ottimizzando, quindi riducendo, l’uso degli agrofarmaci si interviene solo quando è necessario. In questo modo migliora anche la tutela della biodiversità e del suolo.
Un’obiezione frequente alla transizione ecologica è che i costi sono poco sostenibili per le imprese. Chi utilizza i vostri prodotti paga più o meno rispetto a chi predilige un approccio tradizionale?
C’è un ritorno dell’investimento superiore al 120%. Il sistema aiuta anche a risparmiare. Dando meno acqua, si attivano meno le pompe di irrigazione e si risparmia energia. Intervenendo in maniera tempestiva oppure lavorando in ambienti riscaldati, ad esempio una serra, si può diminuire il consumo energetico. Ottimizzando i trattamenti, per esempio passando da dieci a due, si possono contenere i costi dei concimi, che sono aumentati molto, ma anche del personale e dei macchinari utilizzare. le risorse aziendali in termini di costo o lavoro e in termini soprattutto anche di macchinari di utilizzo. La sostenibilità economica delle imprese agricole deve andare di pari passo alla sostenibilità ambientale.