Gli errori di Tremonti sulle delocalizzazioni
07 Aprile 2008
Confesso
di aver pensato ad un classico “pesce”, quando martedì 1° aprile, ho
letto l’intervista di Alberto Orioli a Giulio Tremonti.
“Guarda un po’ – mi
sono detto – Il Sole 24 Ore si comporta come faceva una volta il giornale
satirico ‘Il Male’: ha voluto fare
uno scherzo ai lettori”. Poi, passando dal richiamo in prima pagina alla
lettura dell’intervista vera e propria ho capito che si trattava di una cosa
seria. Tremonti, nell’intervista, immaginava veramente un concorso dell’Italia
alla costruzione di centrali nucleari nei Balcani, allo scopo – sono sue parole
– di “delocalizzare” la produzione energetica e di “localizzare” il
lavoro.
In sostanza, il futuro responsabile dell’Economia (perché il PdL
vincerà le elezioni) ha invertito la logica della divisione internazionale del
lavoro. Considera necessario difendere – mediante la linea protezionista
descritta nel suo ultimo saggio – i settori produttivi più arretrati che ancora
temono la concorrenza cinese e dei paesi emergenti (quella di Tremonti è un’analisi,
a mio parere, datata che trascura i
progressi che la parte più vivace dell’apparato produttivo ha saputo compiere
negli ultimi anni conquistando proprie nicchie sui mercati esteri).
Nello
stesso tempo, l’autorevole esponente del PdL propone di “regalare” una
tecnologia sofisticata come il nucleare di nuova generazione al Montenegro.
Sinceramente non mi pare un affare
conveniente rivolto a garantire una più solida e qualificata prospettiva al
Paese. Sembrerebbe più logico – e
sensato – rinunciare a qualche impresa manifattura alla ricerca di un
costo del lavoro più basso, di manodopera più flessibile e di regimi fiscali
più sostenibili. E rientrare, noi, nel nucleare dopo la follia iconoclasta di
vent’anni or sono. Ma il bello è venuto il giorno dopo. Mi aspettavo che
l’intervista di Tremonti sollevasse qualche critica che facesse notare quello
che – a mio avviso – sembrava un controsenso. Invece no.
Sul medesimo
quotidiano tornavano sull’argomento altri esponenti politici – tra cui Enrico
Letta – che dichiaravano di condividere la proposta di Giulio Tremonti,
evidenziando altresì come fossero già in corso contatti e pratiche in tal senso
nei Balcani.
In parole povere, il Belpaese, visto che non è neppure in grado di
smaltire i rifiuti o di costruire infrastrutture indispensabili come la Tav,
sta pensando, in modo bipartisan, di dribblare l’ostacolo di comunità locali
irriducibili (che si opporrebbero all’installazione di centrali nucleari)
trattando l’Albania e il Montenegro come se fossero nuove colonie. Intanto, in nome della “localizzazione del
lavoro”, dovremmo tenerci le fabbrichette di bottoni e di tappi di
bottiglia. In fondo, è la stessa logica della “italianità” che viene
sbandierata nella vertenza Alitalia: quella che immagina un futuro del Paese
nella salvaguardia dei ferrivecchi, delle archeologie industriali,
dell’antiquariato economico-produttivo, di cui la compagnia aerea è un simbolo
eclatante.
In questi ultimi giorni i giornali hanno paragonato gli eventi di
Fiumicino alle vicende della Fiat dell’autunno del 1980, quando il sindacalismo
industriale, erede e custode del “sessantottismo”, subì una netta
sconfitta che lo costrinse a cambiare cultura e linea politica.
Davanti agli
hangar di Alitalia sta per essere travolto – quasi trent’anni dopo – il
sindacalismo dei servizi, immanicato con la politica (nel senso deteriore del
clientelismo e del sottogoverno), arrogante e tronfio, viziato dallo
Stato-padrone per sua natura incapace di dire dei “no” quando è il
momento di farlo.
La linea di condotta dei sindacati nella vertenza Alitalia è
stata ed è incomprensibile. I dirigenti di Cgil, Cisl e Uil non vivono sulla
luna. Dopo la sconfitta alla Fiat del 1980 sono diventati dei protagonisti
insostituibili dei grandi processi di riconversione produttiva che hanno
rovesciato come calzini centinaia di gruppi e stabilimenti, coinvolgendo
parecchie centinaia di migliaia di lavoratori costretti a cambiare impiego
o finiti nel tunnel degli ammortizzatori
sociali e dei prepensionamenti.
Che nel caso Alitalia vi sia stato un
atteggiamento di intransigenza assoluta nei confronti di quei tagli che restano
indispensabili è talmente assurdo da lasciare stupiti. I sindacati, sicuramente
in malafede, hanno una sola attenuante: la condizione d’impotenza a cui la
politica costringeva gli amministratori della compagnia, i quali ovviamente non
trovavano nulla di meglio che intascare laute prebende e “legare l’asino
dove voleva il padrone”.
Camminando per anni lungo un crinale di
irresponsabilità parallele, l’Alitalia è finita sul baratro. L’ultima spinta
gliela ha data di nuovo la politica. In quest’ultima fase hanno sbagliato
tutti: il Governo Prodi nell’autorizzare l’apertura, durante la campagna
elettorale, di un negoziato con Air France-Klm che poteva concludersi soltanto
dopo le elezioni con il nuovo esecutivo. Silvio Berlusconi ad inventarsi una
cordata di imprenditori “nostrani” in nome di una discutibile italianità
(che odora di morte). I sindacati – che pure erano consapevoli dell’inesistenza
di valide alternative – a trattare
Jean-Cyril Spinetta come un qualunque boiardo di Stato italiano, messo “nella vigna a far da palo” per conto di un partito. Salvo poi
spaventarsi quando il patron di Air France ha abbandonato il tavolo e sbattuta
la porta. Di questa storia non è ancora stata scritta la parola fine. Ma è solo
questione di ore.