I dolori del giovane Obama: fare promesse è più facile che mantenerle
07 Novembre 2009
“Yes, we can”, sì, noi possiamo. Sembrava una frase fatta, completa, definitiva. E invece no: è solo l’incipit di un’espressione ben più articolata che suona così: “Sì, noi possiamo pensare di poter fare forse qualcosa, ma in quanto al farlo sul serio… beh, ragazzi, questo è tutto un altro discorso”.
Il cammino di Obama è tutto in salita: il calendario per la riforma del sistema sanitario viene procrastinato di continuo, così come la chiusura di Guantanamo, più facile a dirsi che a farsi. Il tentativo di convincere il Congresso a varare una legge che affronti i cambiamenti climatici non dà risultati. Il dollaro continua a indebolirsi riducendo il potere di acquisto degli americani e secondo l’ufficio budget del Congresso entro un decennio il debito nazionale passerà dal 40 all’80% del pil.
Come se tutto il resto non bastasse, è arrivato pure un inaspettato smacco da parte del Comitato Olimpico Internazionale, che ha bocciato la candidatura di Chicago -fortemente sponsorizzata da Obama- quale sede delle Olimpiadi del 2012, preferendo Rio de Janeiro.
Barack Obama sta precipitando nei sondaggi: secondo la Gallup ha perso 10 punti percentuali dallo scorso aprile e addirittura 26 da quando fu eletto. A poco è servito farsi fotografare mentre la figlia Sasha gli fa cucù da dietro un divano, copiando così la foto di Kennedy nello studio ovale che quasi mezzo secolo fa studiava incartamenti mentre il figlioletto John John sbucava da dietro la scrivania, con grande sorpresa di tutti (tranne del fotografo, che in entrambi i casi stava proprio lì). Se si votasse oggi, McCain (o chiunque altro) lo sconfiggerebbe senza faticare più di tanto.
In campagna elettorale Obama aveva fatto ben 487 promesse, ma il giorno dopo essere stato eletto aveva prontamente dichiarato di non poterle mantenere tutte. E così è stato: secondo l’agenzia Politifact ne ha mantenute solo 49, su altre 7 si è rimangiato la parola, su 127 ci sta pensando e di altre 304 si sono perse le tracce.
Certo, qualcosa ha fatto. Una delle primissime misure del presidente Obama è stata quella di revocare le disposizioni prese dal suo predecessore per proteggere il diritto alla vita dell’essere umano non nato (“una società che abortisce i suoi figli è una società che abortisce il suo avvenire!” hanno subito gridato in molti). In politica estera ha fatto l’occhiolino alla Russia abolendo il progetto di scudo spaziale (riuscendo a far diventare antiamericani anche i Cechi e i Polacchi), ha cercato la trattativa con Teheran (col risultato che le centrifughe nucleari iraniane non hanno mai funzionato meglio di adesso), ha teso la mano al mondo islamico e si è distanziato da Israele. Tutte cose che gli hanno procurato più critiche che consensi, in casa e fuori.
L’Afghanistan è stato il suo cavallo di battaglia in campagna elettorale (“Non ripeteremo gli errori dell’Iraq!”, diceva) ma ora quel destriero rampante è un ronzino sciancato, e l’opinione pubblica non segue più Obama: chi lo riteneva in grado di gestire la crisi afghana è sceso dal 63% al 45% negli ultimi sei mesi.
E poi c’è l’imbarazzante capitolo delle elezioni presidenziali afgane. Anche il “New York Times” ne ha criticato la pessima gestione da parte della diplomazia USA. Alla fine Karzai è stato “eletto” presidente nel peggiore dei modi. Dopo tre mesi dalle elezioni di agosto, forse le più smaccatamente taroccate nella storia elettorale del pianeta Terra, dopo 90 giorni persi in conteggi e riconteggi, accuse e contraccuse, dopo milioni di dollari buttati al vento, dopo centinaia di migliaia di voti fasulli, dopo la morte violenta o la mutilazione da parte dei talebani di centinaia di cittadini colpevoli di avere votato, alla vigilia del ballottaggio lo sfidante Abdullah si ritira dalla penosa farsa e cosa fa la commissione elettorale? Dice forse che tutto è da rifare? Macché, l’unico candidato superstite, Karzai, viene proclamato vincitore di questa tragicomica buffonata.
E la strategia sull’Afghanistan? Mesi fa Obama ne aveva emanata una per l’AfPak (Afghanistan e Pakistan), ma ora non vale più, ne sarà escogitata un’altra, ma non si sa né quando né come. I buontemponi che hanno conferito a Obama il premio Nobel preventivo per la pace lo hanno messo nei guai. I suoi Generali gli chiedono più truppe (almeno quarantamila) ma lui è nel più amletico dei dubbi: dire di no e beccarsi le maledizioni dei militari o dire di sì e sollevare dubbi in tutto il mondo sull’assegnazione di quel Nobel? Dire di no attirandosi le critiche dei Repubblicani che sosterranno che il Presidente sta mettendo in pericolo le vite dei suoi connazionali in guerra o dire di sì aumentando le paure dei Democratici di stare sprofondando dentro un nuovo Vietnam? Alla fine, qualsiasi cosa farà, sarà quella sbagliata.
Intanto, Obama si sta nervosamente rosicchiando le unghie mentre medita su queste pesanti parole: “Gran parte del territorio afgano è nelle mani dei terroristi. Noi controlliamo i capoluoghi di provincia, ma non possiamo fare di più. I nostri soldati fanno tutto il possibile. Hanno combattuto con incredibile valore in condizioni difficilissime, ma occupare temporaneamente i villaggi non significa nulla in un Paese così vasto dove gli insorti possono dileguarsi quando e dove vogliono. Senza adeguati, notevoli rinforzi, questa guerra continuerà a lungo, molto a lungo”.
Chi ha pronunciato queste parole? Forse il Generale Stanley McChrystal, comandante delle truppe americane in Afghanistan davanti al Congresso ieri mattina? No, è stato un altro Generale. Si chiamava Sergei Akhromeyev, comandante dell’Armata Rossa in Afghanistan di fronte al Politburo dell’Urss. Era il 13 novembre del 1986.