I primi 100 giorni di Obama e la guerra “liberal” al terrorismo
16 Maggio 2009
E’ interessante osservare in questi giorni che mentre l’Europa e la sua costola d’Oltreoceano (New York) dormono ancora sonni profondi, l’America invece inizia ad accorgersi di chi sia veramente Barack Obama, ovvero un incantatore, maestro mediatico, dotato solo di un grande fascino rispetto al brusco texano che lo ha preceduto. Così, se da una parte sulla Fifth Avenue continuano a spopolare le magliette con stampata la faccia del primo presidente nero, d’altra parte c’è anche l’America profonda, che si stropiccia gli occhi ed inizia a vivere un risveglio di quelli bruschi.
Qualche mese fa, il noto conduttore radiofonico Rush Limbaugh, durante il suo discorso presso il Conservative Political Action Commitee, aveva fatto notare che il giorno delle elezioni solo il 22% dei votanti si era dichiarato liberal, ovvero di sinistra tradotto nel panorama politico americano. Eppure proprio quei votanti avevano eletto, parole di Limbaugh, “il presidente più liberal della storia americana”. Questa acuta osservazione dell’idolo della destra conservatrice si conferma oggi essere un problema reale: Obama è politicamente lontano dalla maggioranza che lo ha eletto. I sondaggi dicono che il Presidente incassa una grande fiducia, mentre le sue decisioni pratiche non convincono altrettanto: il che sembrerebbe schizofrenico, ma si spiega facilmente se si pensa da una parte a quanto sia fotogenico e mediaticamente simpatico Obama e dall’altra a quanto siano esiziali alcune sue scelte politiche. E’ come se gli americani fossero ancora in maggioranza infatuati dall’attore, pur cominciando ad essere scettici sulle decisioni del politico.
Prendiamo il caso della lotta al terrorismo. I media di sinistra hanno bombardato le nostre teste per anni dicendoci che a Guantanamo vigeva la tortura contro la Convenzione di Ginevra, senza considerare tre cose: primo, che i detenuti a Guantanamo non erano né militari né civili, ma terroristi che per primi non rispettano tale convenzione e che da essa non sono coperti (come ampiamente provato dal Professor John Yoo); secondo, che le cosiddette torture erano usate solo raramente e come estrema risorsa per ottenere informazioni fondamentali; terzo, che tali informazioni hanno salvato la vita di un numero inestimabile di persone. Ora, di fronte a tale spinosa questione, in cui gli animi si scaldano e gli argomenti sembrano esser nobili da entrambe le parti, Obama che fa? Si mette in posa, fa un bel sorriso per la foto, sforna una frase ad effetto abbastanza generica da riuscire incredibilmente ad accontentare tutte la parti, poi torna nello studio ovale e alla prova dei fatti compie la scelta più liberal (ed assurda) possibile.
La conferma di ciò ci viene da un infuocato articolo di denuncia apparso in questi giorni sul Wall Street Journal, scritto da Debra Burlingame ed intitolato “Obama and the 9/11 families”. La Burlingame, sorella del pilota dell’aereo fatto schiantare dai terroristi islamici contro il Pentagono l’11 settembre 2001, racconta di come Obama, incontrando i parenti delle vittime a febbraio, non solo non sia stato sincero sulle scelte che si apprestava a compiere, ma abbia anzi sfruttato mediaticamente l’evento. Quel giorno infatti, il Presidente, presentandosi con l’immancabile fotografo personale, promise una giustizia “swift and certain”, rapida e certa, nonostante la chiusura di Guantanamo. Tuttavia, a pochi mesi da quelle parole, non solo i terroristi rinchiusi a Guantanamo hanno ora lo stesso trattamento che si riserva ad un qualsiasi ladro di polli, ma addirittura i loro processi sono diventati da militari civili, con tutte le lungaggini che ciò assicura loro e con tutti i problemi di sicurezza che ciò comporta. La Burlingame fa notare al riguardo che portare i processi ai terroristi nelle comuni corti federali implica la concessione alla difesa della lista di persone ritenute dagli inquirenti “co-conspirators”, ovvero non imputati ritenuti comunque facenti parte della rete fondamentalista: questa pratica fa pervenire nel giro di poche ore nelle mani dei capi di Al Qaeda i nomi di coloro che noi già conosciamo come loro affiliati.
Ancor più sconcertante è il proposito dell’amministrazione Obama di rilasciare, ed addirittura su suolo americano, 17 fondamentalisti islamici cinesi, gli uighuri, alcuni dei quali hanno ammesso di aver ricevuto addestramento militare e “terrorist training” nei campi dei Talebani. Per chiudere il cerchio della follia liberal in tema di sicurezza e lotta al terrorismo, è opportuno ricordare che uno tra i primi provvedimenti del neoeletto Presidente era stata la pubblicazione dei memorandum del Dipartimento di Giustizia contenenti le tattiche di interrogatorio della CIA utilizzate durante la precedente amministrazione.
Ora, di fronte a tali decisioni così palesemente compromettenti la sicurezza nazionale, alcune voci autorevoli iniziano a farsi sentire. Come spiega Evan Perez in un articolo apparso sul Wall Street Journal, Obama comincia ad avere qualche dubbio ed alcune delle sue decisioni stanno mostrando tutta la loro pericolosità. Per esempio, il Segretario alla Difesa Robert Gates ha biasimato l’annuncio di Obama di voler rendere pubbliche alcune foto di maltrattamenti di prigionieri nelle carceri irachene ed afghane, perché rinfocolerebbe la propaganda fondamentalista antiamericana. E a proposito dell’interruzione dei processi militari ai detenuti di Guantanamo, il Sen. Lindsay Graham ha posto una domanda semplice quanto opportuna: “Come si può trattenere qualcuno senza sottoporlo a processo per un tempo indefinito?”. E qui si torna alla questione dei molti terroristi che l’Amministrazione Obama, con buona pace della sicurezza degli Americani e dell’Occidente, vorrebbe molto semplicemente rilasciare. Sembra incredibile?
Peschiamo un nome: Binyam Mohamed, agente operativo di Al Qaeda che Bush aveva sacrosantamente spedito a Guantanamo, grazie al nuovo corso di Obama è libero dal 23 febbraio scorso, allegramente rimpatriato in Gran Bretagna. Se questo è il celeberrimo “change” coccolato dai media, è lampante che gli americani prima o poi lo ripudieranno.
Il fatto è che questa amministrazione statalista e buonista vive sulle mezze verità. La campagna elettorale dei Democratici era fondata su dimenticanze: celebre il motto “eight is enough”, che faceva d’ogni erba un fascio, dimenticando i successi di Bush nel suo primo mandato e la sua sostanziale vittoria nello spostare il fronte della guerra al terrorismo da dentro l’America a dentro i covi dei fondamentalisti (come giustamente ricordato da Noemie Emery nel suo articolo “Telling the truth”, sul Weekly Standard del 4 maggio).
Allo stesso modo, ora lo stile di Obama da inquilino della Casa Bianca è imperniato sull’effetto copertina che copre dimenticanze pesanti come macigni. Giustificando l’interruzione degli interrogatori duri a cui venivano sottoposti i terroristi nelle mani della CIA, il Presidente ha imboccato il solito viale della retorica, scomodando perfino Churchill, il quale nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale si sarebbe rifiutato di far torturare prigionieri nazisti per estorcere informazioni. Peccato che Obama dimentichi come lo stesso Churchill, per vincere una guerra da cui dipendeva la sicurezza della Gran Bretagna oltre che la sopravvivenza della libertà, non abbia esitato a far bombardare Amburgo ed altre città tedesche, con pesanti perdite di vite umane.
E ancora, Obama si compiace di aver scoperto che non c’è bisogno dei metodi duri per giungere al più totale ottenimento delle informazioni necessarie. Benissimo, però gli Americani attendono ancora di conoscere l’altra metà della questione: qual è la magica alternativa gentile trovata dal supereroe liberal? Risposta non pervenuta per ora. Pervenuta sarebbe invece una memoria esplicativa dell’ex Vicepresidente Cheney, che prova in dettaglio come i metodi di interrogatorio utilizzati durante il governo Bush siano risultati strumenti indispensabili per arrivare ad informazioni che hanno consentito l’impedimento di altri attentati, come ad esempio uno progettato da Al Qaeda a Los Angeles. Peccato che Obama in persona abbia deciso per il momento di impedire la declassificazione e quindi la pubblicazione di questo documento di Cheney.
Infine, Democratici e mass media a loro affiliati si ostinano ad etichettare gli interrogatori dell’amministrazione Bush come “torture” fuori dal diritto internazionale, dimenticando che la Corte Europea dei Diritti Umani ha da tempo (1978) sancito che le “stress position” e la privazione del sonno non costituiscono tortura.
Insomma, sebbene sia presto per giudicare in generale la politica estera del nuovo Presidente ed i suoi risultati nel ricucire i rapporti col resto del mondo, possiamo formulare un giudizio sui suoi primi cento giorni nello specifico campo della guerra al terrorismo. Qui, i suoi errori sono già mastodontici. Tanto che, se continua su questa linea, Obama tra non molto potrà rilassarsi: non ci saranno più domande fastidiose su terroristi islamici trattati da criminali comuni, semplicemente perché non ci sarà più nessun terrorista islamico dietro le sbarre.