
I social, gli influencer propal e l’estetica della compassione

23 Marzo 2025
Quando è iniziato a circolare su TikTok quel video — o forse sarebbe meglio dire deepfake — che mostrava Gaza trasformata in una sorta di Las Vegas jihadista, con miliziani ballerini che facevano l’aperitivo, è scoppiato un putiferio. Un coro unanime d’indignazione, un’alzata di scudi trasversale, una specie di lutto civile sui social: “Vergogna!”, “Disumanizzazione!”, “Satira fuori luogo!” e via indignandosi. Curioso, però, che nessuno si sia mai preso la briga di interrogarsi seriamente sul tipo di comunicazione che circola quotidianamente — e indisturbata — sugli account “propal”, meglio ancora se gestiti da influencer occidentali pieni di tempo libero e con una spiccata vocazione poetica.
Nessuno, ad esempio, ha da ridire su quelle immagini generate con l’AI (e con una bella dose di compiacimento) che mostrano bambini palestinesi seduti tra le macerie, gli occhi sgranati in primo piano, la pelle perfettamente illuminata — quasi ci fosse un direttore della fotografia a coordinare l’ultimo aggiornamento. Bambine sui pattini rosa che guardano il cielo mentre arriva un jet, e bambini che sfidano i carri armati dell’IDF armati di fionde. Bandiere palestinesi sempre accompagnate da una colomba, un cuore rosso, l’immancabile arcobaleno, una bandiera LGBTQ+, un unicorno, e via dicendo.
Il tutto incorniciato da frasi tipo: “Non devi essere palestinese per avere un cuore” o “Chi sta con la Palestina dimostra di avere un’anima”. Senza mai menzionare un razzo, gli attentati e i miliziani che impugnano kalashnikov, ovviamente. E guai se qualcuno ha da ridire. Se lo fai, diventi un mostro. Invece va benissimo, anzi è doveroso, condividere il manifesto circolato alla Columbia con i deltaplani del 7 ottobre e la scritta “Il popolo di Gaza volò nel cielo come libellule colorate”. Perché l’importante, oggi, non è la verità — troppo complessa, troppo scomoda — ma l’estetica della compassione. E il giusto filtro instagram.