Il conflitto in Iraq tra realismo, idealismo e guerra giusta
12 Novembre 2007
Concordo pienamente con Leonardo Tirabassi nel salutare con soddisfazione
il dibattito sviluppatosi sulle pagine de L’Occidentale riguardo alla guerra in
Iraq, a cui ha partecipato anche Carlo Panella; seppur nato dal tentativo di individuare
eventuali affinità e discrepanze tra Iraq e Vietnam, il discorso appare
determinato ad allargarsi alla valutazione complessiva dell’intervento
statunitense in Medio Oriente. Le sue implicazioni si estendono indirettamente anche alle politiche che gli
Stati Uniti decideranno di adottare nei confronti dell’Iran, nonché degli altri
rogue states che minacciano il
fragile equilibrio internazionale contemporaneo. L’interesse che ha circondato
gli interventi segnala tra l’altro – ed anche qui concordo con Tirabassi – l’immensa
importanza di aprire anche in Italia, anche tra le file della destra, una discussione
intellettuale per valutare problematiche ed implicazioni della Seconda guerra
del Golfo, nonché la volontà degli studiosi di porsi in maniera dialettica, e
non a priori complice o antagonista, nei confronti della corrente
Amministrazione Repubblicana americana.
Affrontando dunque il discorso in un’ottica più ampia, ritengo opportuno partire
dalla scissione tra etica e politica verificatasi nel panorama intellettuale europeo
dopo la Seconda
guerra mondiale, in virtù della quale – dal lavoro di Hans Kelsen fino ad oggi –
si è sostenuta la necessità di scongiurare la guerra che mira ad annientare il
nemico, affrontandolo piuttosto attraverso la politica ed il potere militare. A
tale proposito, Tirabassi cita opportunamente Carl Schmitt e la sua esortazione
a neutralizzare il conflitto morale per evitare inutili criminalizzazioni e
mantenere lo scontro quanto più possibile legato alla guerra di forma tra
nemici giusti. La “vera grande politica, quella dei Churchill e dei de Gaulle”,
vanta nomi importanti, ha meriti innegabili e numerosi, e rende il realismo
politico un approccio altamente auspicabile.
Tuttavia, la ragionevolezza di tali considerazioni non sembra sufficiente a
trascendere i confini dell’Europa, che – come sostiene l’analista politico
neoconservatore Robert Kagan – gode da più di cinquant’anni della pace kantiana
grazie alla protezione statunitense. Lontani dai grandi conflitti valoriali
degli ultimi anni, gli europei possono ancora scindere i giudizi morali da
quelli politici nel valutare i conflitti armati, incarnando dunque uno -ma non l’unico-
tra i possibili approcci al dibattito sulla legittimità della guerra: quello
realista, tipicamente europeo nella sua origine e nel suo sviluppo. Le dottrine
politiche oltre ai confini dell’Europa sono invece sovente impegnate ad
attribuire giudizi etici -e non solo politici e strategici- alle motivazioni ed
alle modalità di gestione dei conflitti armati. In quest’ottica, è morale il
richiamo dei jihadisti a sconfiggere il Grande Satana che diffonde il male minacciando
l’islam, anche al costo di sacrificare vite innocenti (che secondo il principio
della responsabilità collettiva da loro adottato, veramente innocenti non sono
mai); così come è morale la risposta dei neoconservatori e dell’Amministrazione
Bush, che dichiarano di combattere gli evildoers,
i malfattori, per il bene e la
salvezza del mondo, così come per gli ideali di libertà e democrazia cari
all’Occidente che su di essi erige le proprie istituzioni politiche e civili.
Si può sostenere o criticare questa attribuzione di considerazioni morali
alla guerra, ma è necessario riconoscerne l’esistenza e la popolarità al di
fuori del nostro continente, in particolar modo affrontando il dibattito sul regime change -inteso come la
sostituzione forzata di un regime illiberale con uno più democratico. Secondo
molti europei il regime change non è
necessariamente un’azione militare, e sarebbe da realizzarsi sulla base di
determinate precondizioni, che -nota Tirabassi- si identificano nella comunanza
di valori basilari all’interno di una comunità, la presenza di uno stato di
diritto, l’esistenza di un’élite a
favore della democrazia, la sicurezza dei confini ed il consenso
internazionale. Tutti presupposti che, non me ne voglia l’autore, per quanto
politicamente sensati, se realmente presenti renderebbero la strategia di regime change inutile o quantomeno
ridondante. Diversamente, per numerosi studiosi americani il regime change è un atto di forza che modifica
i valori sui quali si è costituito uno Stato; o meglio, lo aiuta a riscoprirli in
una forma differente, anche suo malgrado. L’approccio statunitense alle
dottrine di legittimità dei conflitti armati è dirompente: riporta i giudizi
morali in politica da parte della più grande potenza mondiale, l’America; e
così come accadeva un tempo con le guerre di crociata, proclama un vero
oggettivo ed universale del quale persuadere -eventualmente ricorrendo anche
all’intervento militare- coloro che queste verità ancora non le vedono.
Al di là delle differenze tra realismo politico europeo ed idealismo
americano, il secondo problema che gli studiosi oggi si trovano ad affrontare
in merito all’analisi dei conflitti armati è quello delle strategie di
controinsorgenza (COIN) adottate dagli USA durante la guerra in Iraq, che demoliscono
le tradizionali partizioni di guerra giusta (ius ad bellum e ius in bello)
contaminandole con lo ius post bellum
-quello che Michael Walzer circoscrive come l’insieme delle condizioni che
regolano (o dovrebbero regolare) la pacificazione, l’occupazione militare, la
compensazione e la ricostruzione politica. L’introduzione del concetto di COIN confonde
le motivazioni per le quali si combatte con i criteri che dovrebbero
regolamentare la pace; unitamente al regime
change come inteso dall’Amministrazione Bush, ovvero la scelta
ideologico-filosofica di esportare la democrazia oltreconfine attraverso
strategie militari, la COIN
compromette i tradizionali metodi di ricostruzione, marchiandoli con
un’inaccettabile impronta valoriale che vuole condizionare un ordine politico e
sociale già esistente.
Gli studiosi di guerra giusta condannano da sempre gli interventi armati
volti a cambiare radicalmente e dall’esterno il sistema politico o i confini di
una nazione, in nome del rispetto per la sua sovranità politica ed integrità
territoriale: per questo chiedono a gran voce che vengano posti limiti al regime change statunitense di stampo idealista e militare. Nel
caso specifico della Seconda guerra del Golfo, essi affiancano alla critica del
regime change quelle che reputano essere le motivazioni illegittime per l’intervento
in Iraq: Saddam non aveva aggredito l’America, né rappresentava una minaccia
tangibile ed imminente; era possibile adottare corsi d’azione alternativi, come
il rafforzamento dell’embargo sulle armi, le ispezioni e le no fly zones; la comunità internazionale
era riluttante a concedere l’autorizzazione a combattere.
Per quanto riguarda invece le azioni compiute una volta terminate le
ostilità, e dunque non indirizzate al conseguimento della vittoria ma ad
un’efficace ricostruzione, non entrerò in questa sede nel merito delle norme di
ius post bellum proposte da filosofi
come Michael Walzer e Nissan Oren; ricordo unicamente che l’enfasi da parte degli
studiosi di guerra giusta è posta sul ripristino dello status quo ante, se si agisce per riequilibrare un intervento
aggressivo (è il caso della reinstaurazione
di un governo legittimo o di un confine dopo un’invasione); o sull’istituzione
di condizioni sufficienti e necessarie per la cessazioni di crimini atroci,
come il genocidio o la pulizia etnica. L’occupazione militare è permessa solo
quando essa sia l’unica risorsa in grado di garantire la prevenzione di
massacri su larga scala, la distribuzione di aiuti umanitari, la protezione
delle ambasciate. È in base a tali considerazioni che la just war theory ribadisce la necessità di rivedere le strategie
COIN nel Golfo, per condurle verso criteri di ius post bellum, più neutri rispetto alla loro deriva valoriale verso
la supposta iusta causa dell’Amministrazione
Bush.
Ciò nonostante, in Iraq l’America ha vinto. Saddam è stato deposto, ed ora
vige al suo posto un sistema embrionale di democrazia – un risultato innegabilmente
positivo, che va oltre le dissertazioni sulla legittimità della guerra. Le
ostilità tra l’Iraq e la coalition of the
willing sono ufficialmente cessate, e restano soltanto sacche di ribellione
locali da sedare per garantire la sicurezza nazionale. Come ha dichiarato anche
il governo iracheno, non è possibile tornare indietro adesso: sarebbe ingiusto abbandonare
Baghdad. A prescindere dalla discutibilità delle strategie di regime change e COIN, è ancora possibile
condurre efficacemente la pacificazione: una volta conclusasi la guerra, c’è un
nuovo spazio per rispettare lo ius post
bellum e gestire lo scenario postbellico in maniera produttiva e positiva.