Il diritto alla vita è un principio che non può essere in nessun caso sacrificato

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Il diritto alla vita è un principio che non può essere in nessun caso sacrificato

Il diritto alla vita è un principio che non può essere in nessun caso sacrificato

14 Gennaio 2008

Sull’aborto, sul diritto alla vita, sul
diritto della donna a decidere sul proprio corpo e sulla legge 194 sono stati
versati i tradizionali fiumi d’inchiostro da quando Giuliano Ferrara ha
lanciato la sua proposta di moratoria, che ha avuto il merito di riaprire la
discussione su un tema che ufficialmente era ignorato e di cui si occupavano
soltanto i diretti interessati. Tanto era ignorato che la riapertura del
dibattito è stata accompagnata dalla perentoria affermazione, da parte della
ministra Turco e di molti altri, che comunque la legge non si cambia. La
discussione dunque dovrebbe restare un’esercitazione dialettica o un passatempo
da bar sportivo. Può anche darsi che alla fine la legge non si tocchi, ma
stabilirlo a priori appare come una grave offesa alla democrazia (di cui tanto
ci si riempie la bocca), che non riguarda solo la libertà di opinione e di
parola, ma anche la traduzione delle opinioni in atti legislativi.

Dopo questa premessa, tanto ovvia da
sembrare superflua, passo ad alcune considerazioni senza alcuna pretesa non
solo di esaurire l’argomento, ovviamente, ma neppure di portare un contributo
granché originale. La prima riguarda l’esortazione, che sento fare da a gran
voce, ad affrontare un argomento così importante senza pregiudizi e senza
emotività, ricorrendo solo all’asettico esercizio della razionalità (e spesso,
per dar peso all’invito, si qualifica la razionalità di scientifica). Ma com’è possibile? Non si tratta di filosofia, o di
matematica, e neppure di arte o di musica: si tratta di vita, di morte, di
carne e di sangue. Come possiamo non portare tutta la nostra esperienza
esistenziale, che si riassume in quelli che impropriamente si chiamano
pregiudizi, e sono convinzioni, scale di valori, preferenze e principi? Come
possiamo restare impassibili di fronte al destino del corpo, dal quale tutto
dipende? Il dolore e il piacere si annidano nei ventricoli del corpo, le
emozioni sono un portato evolutivo a salvaguardia del corpo, la sofferenza e la
voluttà sono inestricabilmente legate al corpo e qualunque discorso che
riguardi questa provincia dell’umano è inestricabilmente intriso di emozioni.

C’è quindi un divario incolmabile tra la
formulazione asettica dei principi tradotti nelle norme legislative (e nelle
pratiche chirurgiche) e ciò che accade nel concreto, alle donne, ai feti e
anche agli uomini (dei padri non si parla mai,
eppure qualcosa debbono pur sentire e soffrire e gioire e sperare anch’essi!).
Il concreto non segue leggi generali e immutabili come quelle della fisica, è
invece un fascio vibrante e dinamico di storie personali, trascurabili per chi
non le vive, ma totalizzanti e drammatiche per chi ne è protagonista.

La difesa della vita è un principio: lo
si può accettare o respingere e, accettandolo, lo si può delimitare e qualificare
definendo ciò che si intende per vita o per essere umano. E, come il principio,
anche queste definizioni sono arbitrarie: ma non aspettiamoci che sia la
scienza a stabilire se il feto, o addirittura l’embrione, sia già essere umano.
Io credo di sì, altri sostengono il contrario: la risposta può venire dalla
fede, o dalla filosofia, o da convinzioni personali. Io credo che la continuità
e l’inarrestabile dinamismo che accompagna la vita di ogni individuo dal
concepimento alla morte sia argomento sufficiente a suffragare la mia
posizione. Certo, si può anche convenire che il punto di svolta che legittima
la qualifica di essere umano sia un altro: la nascita, il compimento del primo
anno, quella che una volta si chiamava l’età della ragione (variabile nel tempo
e nei vari Paesi), la pubertà, il menarca, il ventunesimo anno, il primo
rapporto sessuale, il primo figlio, le nozze d’argento… Bizzarrie? Eppure,
vista la continua maturazione di ciascuno di noi, la consacrazione ad essere
umano potrebbe avvenire in qualsiasi momento: ma il concepimento e la morte
hanno questo di particolare, che sono gli estremi della parabola vitale, quindi
il concepimento è un istante privilegiato.

Si è radicalizzata l’opposizione tra
cattolici e laici, che si identificano ormai con i difensori e con gli
oppositori del principio. Questa è una grave distorsione della realtà e
comporta per alcuni laici una perdita di libertà: per non apparire succubi
delle gerarchie ecclesiastiche, costoro rinunciano a difendere un principio al
quale di fatto aderiscono. Io sono laico, eppure sono convinto che l’aborto sia
una violazione del diritto alla vita.

Ma anche se lo si accetta, il principio
di difesa della vita è astratto, e bisogna calarsi nei casi particolari: è qui
che cominciano le vere difficoltà, legate alla singolarità delle situazioni
particolari, che sono assai diverse tra loro. Oggi abbiamo i mezzi diagnostici
per rintracciare nel feto malattie invalidanti o semplici scostamenti da
un’asserita (e indefinibile) “normalità” e spesso una diagnosi di tal genere è
seguita dalla decisione di abortire, per evitare al nascituro (e ai genitori)
il fardello e il dolore di una vita anormale: ma chi ci assicura che la scelta
del bambino sarebbe quella di essere cancellato? Anche gli idioti o gli storpi
possono essere contenti di vivere e di dare un contributo di affetto e di gioia
alla famiglia e alla società. A volte l’imperfezione del corpo si accompagna al
fulgore della mente (penso al geniale astrofisico Stephen Hawking, paralitico
totale). E viceversa: quante persone aitanti e seducenti vediamo intorno a noi
che pure hanno un cervello di gallina?

Non voglio arrivare all’estremo di
affermare che non si debba abortire mai, sono pronto a derogare dal mio
principio in casi di particolare gravità, da esaminare di volta in volta. Ma ho
l’impressione che il gran numero di aborti praticati (non solo in Italia) nelle
strutture autorizzate sia indice di una pratica contraccettiva a posteriori più
che un rimedio estremo a condizioni insostenibili. Allora si faccia una solida
campagna per l’uso dei contraccettivi in senso proprio, tenuto conto della
leggerezza con cui molti giovani e giovanissimi si accoppiano per poi salutarsi
senza interrogarsi sulle conseguenze del loro atto.

Quindi la sacralità della vita dev’essere
il principio ispiratore della legislazione, e le istituzioni dovrebbero
preoccuparsi più di quanto non facciano di dare sostegno economico, ma anche di
comprensione, consiglio, assistenza e amore,
alle donne (o alle coppie) che si trovano in una situazione di solitudine e
spesso di disperazione. La mentalità che si va diffondendo intorno all’aborto è
figlia di un certo tipo di progresso tecnoscientifico che privilegia la perfezione,
così necessaria per la competizione e per il successo. Nessuno, pare, vuol più
essere normale, qualunque cosa ciò
significhi, tutti vogliono ricorrere alle pratiche migliorative fornite da una
medicina che si sta trasformando in un trampolino verso il postumano. Tutto ciò
è fonte di esaltazione ma anche di sofferenza. Tutti ne siamo lacerati nel
profondo, magari inconsapevolmente, ma nelle donne che abortiscono questa
sofferenza si fa palese e lascia una traccia indelebile.