Il fiume Po, la grande sete e quella rete idrica da ripensare

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Il fiume Po, la grande sete e quella rete idrica da ripensare

Il fiume Po, la grande sete e quella rete idrica da ripensare

16 Luglio 2022

Il fiume Po da 70 anni non è mai stato così in secca. Dal letto emergono reperti della Seconda Guerra mondiale. Ci vorrebbe il genio di Celati per raccontare cosa accade nella Valle del Po e nel resto dell’Italia assediato dalla siccità. 300mila aziende agricole a rischio. Il 30 per cento delle produzioni. I danni ammontano a 3 miliardi di euro, mezzo milione solo in Lombardia. Nel distretto piemontese del riso e del mais, strategico per la produzione europea, non piove da gennaio.

Come nei racconti di Celati, seguendo il fiume Po verso la foce sembra che un oscuro presentimento gravi sulle terre assetate del Paese. Tra paesaggi che si modificano e colture che potrebbero essere spazzate via. “Come nel 2003, siamo di fronte ad un accumulo di fattori legati al cambiamento climatico. Riduzione della precipitazione di neve nell’inverno. Assenza di precipitazioni di pioggia in primavera e ancora di più in estate. Temperature altissime che quindi aumentano i bisogni irrigui dell’agricoltura, l’evaporazione dell’acqua e il bisogno di energia”. Giacomo Parrinello, storico dell’ambiente a Sciences Po, parla del più lungo fiume italiano.

“C’è molto da imparare dai Paesi che fanno i conti con la scarsità d’acqua da prima di noi. Penso all’Africa del nord, all’India, ai cosiddetti Paesi del sud del mondo che abbiamo sempre guardato con una certa supponenza e senso di superiorità ma che, invece, hanno sviluppato tecniche, tecnologie, sistemi e colture pensate proprio per fare i conti con la scarsità e tirare fuori il massimo profitto possibile da condizioni ambientali molto dure”, aggiunge Parrinello.

“Non mi permetto di dire che questa è la soluzione per l’agricoltura industriale e l’economia della valle padana, ma se vogliamo cercare delle idee e soluzioni è in quella direzione lì che bisogna cercarle. La mia impressione è che europei ed americani, complessivamente, non siano meglio preparati di noi a far fronte al tempo presente”. La provocazione del professore coglie nel segno e il cambiamento climatico gioca senza dubbio la sua parte nei fenomeni che stiamo osservando.

Ma non da oggi sappiamo che i sistemi idrici del nostro Paese si stanno modificando e per anni sono mancati interventi strutturali. Ci si è affidati solo alla solita logica emergenziale, in attesa della prossima pioggia. Poco o nulla è stato fatto per creare nuovi bacini idrici e riserve di acqua. Per velocizzare i tempi di realizzazione delle infrastrutture idriche.  Chi rievoca il referendum sull’acqua bene pubblico dovrebbe fare i conti con gli sprechi del nostro sistema di acquedotti. Circa il 30 per cento dell’acqua trasportata in Italia va sprecata. Nella Capitale e in tante città italiane le fontanelle continuano a buttare acqua senza sosta.

La questione dell’acqua, un bene che diamo per scontato, assume quindi una importanza pari a quella della emergenza energetica. Il Governo si è mosso mettendo mano al piano per affrontare la siccità e nelle scorse settimane è spuntata l’ipotesi di un commissario straordinario. Però nel Pnrr sono stati stanziati soltanto 3 miliardi e mezzo per la rete idrica. Troppo poco per riorganizzare l’uso che facciamo di quell’acqua che seguendo il corso del fiume Po non è più abbondante come una volta.

La spesa per la gestione della rete idrica nei comuni italiani è irrisoria rispetto alla media Ue ma in compenso i consumi di acqua nel nostro Paese sono cresciuti il doppio che in Europa. Sarà bene muoversi rapidamente per sostenere il settore agricolo, le forniture di acqua potabile e l’uso che ne facciamo. Ma è un intero modello economico di aree strategiche del nostro Paese che dobbiamo velocemente ripensare.