Il Kosovo non è pronto per essere uno Stato
11 Marzo 2008
La secessione del Kosovo dalla Serbia, proclamata
solennemente dall’assemblea parlamentare di Pristina il 17 febbraio, come i più
complessi casi storici di formazione delle entità statuali ha ingenerato da
subito un importante dibattito tra i giuristi internazionali in merito alle
conseguenze che siffatto evento produrrà sull’evoluzione della materia. Va da
sé che, come sempre avviene nella vita di relazione internazionale, l’analisi
politica di un accadimento non può essere avulsa da considerazioni giuridiche,
pena un risultato descrittivo monco, e cioè privo di osservazioni sui
fondamentali della legittimità, del consenso, dell’equilibrio etico, che pure
fonda la comunità internazionale, oltre che degli effetti non intenzionali
nella regione e avverso gli equilibri globali nei termini più strettamente
prescrittivi della politica internazionale.
L’Occidentale ha meritoriamente pubblicato un’analisi a firma di Roberto
Santoro sull’argomento il 25 febbraio scorso. Santoro centra la propria
riflessione sullo smembramento dell’ex Repubblica Federale Socialista di
Jugoslavia (RFSJ), asserendo quindi che l’atto di Pristina non è qualificabile
come secessione, bensì come “ultimo capitolo dello smembramento” della RFSJ.
Nel far questo, l’autore equipara il caso kosovaro a quelli dei sei Stati
federali che composero la RFSJ: Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia,
Slovenia e Bosnia-Erzegovina. A beneficio del lettore, ricordiamo che lo
smembramento si differenzia dalla secessione nella particolarità che col primo
lo Stato preesistente cessa di esistere, mentre col secondo esso continua ad
esistere.
Ora, l’interpretazione di Santoro è infondata. Questo perché il Kosovo è
rimasto una provincia serba anche dopo il processo di smembramento della RFSJ e
– punto taciuto dall’autore ma dirimente – anche e soprattutto dopo la nascita
della Repubblica Federale Jugoslava (RFJ), altrimenti detta Serbia &
Montenegro. In altre parole, il processo storico di smembramento della RFSJ
degli anni Novanta è relazionabile ai soli Stati effettivamente emersi da
quegli eventi storico-politici. Con l’Accordo di Vienna del 2001, che pure
Santoro cita, la RFJ riconosce l’avvenuto smembramento e firma tale accordo in
quanto Stato sovrano ed indipendente, all’interno del quale esiste, tra le
tante, una provincia di nome Kosovo (che infatti, in quanto tale, non firma
alcun accordo, non avendone la legittimità giuridica). E c’è da notare come
l’Accordo di Vienna giunga ben due anni dopo la fine dell’intervento aereo
della NATO, della risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU (CdS) 1244 e
dell’avvio della missione Unmik sul territorio kosovaro.
Se si getta, infine, uno sguardo al diritto interno serbo, sarà facile
constatare che la Costituzione titina del 1974, che concedeva lo status di
provincia autonoma al Kosovo, fu sostituita nel 1990 da una nuova carta
costituzionale che non riconobbe più quello status alla provincia. La
Costituzione della RFJ del 2003, inoltre, confermò l’assenza di alcuna
previsione in merito sia all’autonomia della provincia kosovara sia
all’eventuale diritto alla secessione liberamente esercitato dalle autorità
locali. Il Montenegro godeva di questo diritto costituzionale (e sappiamo che
lo ha poi esercitato con apposito referendum popolare); il Kosovo no.
Al contrario dei molti osservatori che hanno invece
superficialmente liquidato la decisione kosovara come lecita perché appoggiata
dalla maggioranza degli Stati occidentali, è opportuno chiarire che, sul piano
giuridico internazionale, la dichiarazione di indipendenza è considerata un
atto rilevante a livello meramente storico, una situazione di fatto che, di per
sé, non è contraria e non è conforme al diritto internazionale.
I riferimenti all’autodeterminazione del popolo kosovaro, da
più parti impropriamente avanzati e quasi sempre confusi col principio di
autodeterminazione nazionale, che è invero principio di tipo politico, non
hanno alcun peso nella fattispecie. Infatti, il principio di autodeterminazione
dei popoli, come sancito dall’art. 1, par. 2, e dagli artt. 55 e 56 della Carta
ONU, dai due Patti ONU del 1966, dalla Dichiarazione dell’Assemblea Generale
(AG) sull’indipendenza dei popoli coloniali del 1960, da quella sulle relazioni
amichevoli tra gli Stati del 1970, dai pareri resi dalla Corte Internazionale
di Giustizia nel caso della Namibia (1971) e del Sahara Occidentale (1975) e
dalla sua sentenza nel caso di Timor Orientale (1995), nonché infine
dall’unanimità della dottrina, si configura come autodeterminazione esterna, e
non interna. Ha diritto a determinare liberamente il proprio status
internazionale quel popolo assoggettato a dominazione coloniale o razzista o il
cui territorio è conquistato e occupato con la forza; non già, quindi, quello
che ambisce all’instaurazione di un regime interno di tipo democratico.
C’è da aggiungere che il principio di autodeterminazione è irretroattivo, non
operando così verso quelle situazioni consolidatesi prima della sua formazione,
quest’ultima relazionabile al secondo dopoguerra. E’ evidente, perciò, come il
Kosovo sotto sovranità serba non rientri in alcuna modo nell’ambito di
applicazione integrale di tale regola, essendo parte integrante della Serbia
sin dalla Pace di Londra del 1913, ad esito della seconda guerra balcanica.
Tuttavia, l’autodeterminazione trova nel principio di integrità territoriale
degli Stati un’importante eccezione, sancita al par. 7 della citata
Dichiarazione dell’AG del 1960. In virtù di tale norma, l’autodeterminazione va
coordinata con i legami storico-geografici del territorio rispetto a quelli
dello Stato dominante. Interpretato in tal modo, il principio di integrità
territoriale costituisce un potente freno giuridico alle pretese
secessionistiche di un popolo. La Carta di Parigi del 1990, elaborata in ambito
OSCE e significativa di una certa tendenza del diritto internazionale odierno a
considerare con crescente sensibilità la tematica dell’autodeterminazione
interna, si pronuncia anch’essa in tal modo. Anche sul piano della
giurisprudenza interna le cose non cambiano. La Corte Suprema russa, nei casi
del Tatarstan e della Cecenia, ha interpretato i due principi come appena
esposto per negare la possibilità di una secessione unilaterale dalla
Federazione. Anche la Corte Suprema canadese, nel caso del Québec, ha negato
che una provincia o una regione, anche quando etnicamente differenziata dal
resto dello Stato, abbia il diritto a secedere al di fuori delle tre ipotesi
tipiche del principio di autodeterminazione dei popoli.
Pur in assenza di un diritto a secedere, però, un popolo, se ne ha la forza politica
o militare, può di fatto staccarsi da uno Stato. In altre parole, il diritto
internazionale non prevede il diritto a secedere, ma non per questo non
riconosce, sulla base del principio di effettività, il distacco e la
conseguente nascita di un nuovo Stato, purché sovrano ed indipendente. Ai fini
della soggettività di diritto internazionale, pertanto, risulterà sufficiente
che un governo risulti capace in fatto di esercitare in via esclusiva il potere
di imperio sulla comunità territoriale distaccatasi, nell’ambito di un
ordinamento giuridico non derivato, cioè non dipendente da altri Stati. Quanto
fin qui chiarito vale purché non vi sia aiuto da parte di Stati terzi, i quali
hanno l’obbligo di rispettare l’integrità territoriale dello Stato che subisce
la secessione.
La pratica del riconoscimento del nascente Stato da parte degli Stati
preesistenti a cui si assiste in questi giorni, però, non ha valenza
costitutiva della personalità internazionale dello Stato da riconoscersi. In
dottrina si afferma che il riconoscimento di Stati è un atto politico, pertanto
discrezionale, e non giuridico. Gli Stati preesistenti sono liberi di
riconoscere uno Stato sovrano ed indipendente, così come di non riconoscerlo,
essendo la decisione legata a considerazioni di carattere diplomatico. Il
riconoscimento, quindi, non ha altro significato che una presa d’atto, sul
piano storico, dell’esistenza di uno Stato che sia tale giuridicamente – cioè:
sovrano ed indipendente – secondo la valutazione posta in essere dallo Stato recognoscente.
E la sua utilità è circoscritta all’instaurazione di normali relazioni
diplomatiche tra i due Stati e, più in generale, delle varie forme di cui si
sostanzia la vita di relazione internazionale. Non è un caso che le conclusioni
del documento comune approvato dal Consiglio dei ministri degli Esteri dell’UE
del 18 febbraio lascino facoltà ai singoli Stati membri di decidere liberamente
in merito al riconoscimento dello Stato kosovaro «in linea con le pratiche
nazionali e le norme giuridiche».
Secondo un’autorevole opinione – quella espressa il 21 febbraio scorso su Affari
Internazionali dal professor Natalino Ronzitti
– il riconoscimento del Kosovo quale nuovo Stato è prematuro, in mancanza di
una seria dimostrazione del requisito dell’effettività. Mancherebbe, cioè,
l’esclusivo esercizio del potere di imperio da parte del governo di Pristina:
la sua sicurezza esterna è garantita dalla missione Kfor; la sua
amministrazione interna dalla missione Unmik; infine la sua sicurezza interna
dalla nascente missione Eulex. E’ condivisibile, pertanto, l’affermazione di
Santoro secondo la quale “il Kosovo è ancora sospeso tra comunità e governo”.
Ma, proprio in virtù di siffatta considerazione e al contrario di quanto
l’autore finisce per desumere, non può ammettersi, hic et nunc, il requisito
dell’effettività e quindi della legittima indipendenza kosovara.
E’ utile infine approfondire le diverse interpretazioni
giuridiche fornite dalle parti coinvolte nella crisi al testo-chiave della
valutazione di legittimità della secessione del Kosovo dalla Serbia, ovverosia
la risoluzione 1244 (1999) del CdS. La risoluzione 1244
ordinava al governo della RFJ, al termine dell’intervento aereo della NATO di
quell’anno, di ritirare tutte le forze armate federali dal territorio del
Kosovo e di permettervi l’avvio di un’amministrazione provvisoria da parte
dell’ONU. L’argomentazione fornita dalla maggior parte degli Stati membri dell’Unione
Europea (UE) e dagli Stati Uniti al riguardo è che, poiché la risoluzione
disponeva l’invio di una missione «civile e militare internazionale che
facilit[asse] un processo politico volto a determinare il futuro status
internazionale del Kosovo» e poiché tali principi furono concordati, prima
dell’adozione della risoluzione in esame, da una riunione dei ministri degli
Esteri degli Stati membri del G8, implicitamente questa clausola
giustificherebbe giuridicamente l’esito finale – l’indipendenza di Pristina –
di tale processo politico. In pratica, gli Stati occidentali asseriscono che l’indipendenza
è il risultato di un percorso politico caratterizzante lo spirito della
risoluzione 1244. Nello stesso senso si pronuncia il documento adottato dall’UE
per legittimare la missione Eulex, approntata in ambito PESD.
La posizione della Serbia, della Federazione Russa, della Cina e di una
minoranza degli Stati membri dell’UE (Grecia, Spagna, Cipro, Slovacchia,
Bulgaria e Romania) che tuttavia, astenendosi in sede di votazione, non si sono
opposti all’approntamento della missione Eulex da parte dell’UE, consiste in un
rifiuto categorico di una siffatta impostazione. Questi Stati affermano che non
esiste alcuna risoluzione del CdS che autorizzi la secessione del Kosovo. Il
riferimento argomentativo è dato dal paragrafo 10 della risoluzione 1244 che
prevede espressamente, e con efficacia indiscutibilmente vincolante per le
parti coinvolte, la concessione al Kosovo di «una sostanziale autonomia»
all’interno dell’allora RFJ. Poiché tale disposizione è l’unica tra quelle
della risoluzione 1244 a statuire in merito allo status della regione kosovara,
ne discende che l’ipotesi dell’indipendenza è apertamente esclusa dal testo. Inoltre,
con riferimento alla missione Eulex, i governi di Belgrado e Mosca rilevano
come la risoluzione 1244 autorizzi missioni di organizzazioni internazionali
nel territorio del Kosovo purché «sotto gli auspici dell’ONU», elemento di cui
sarebbe quindi sprovvista la missione UE.
La posizione avanzata dagli Stati occidentali appare molto debole. La prova è
data dal fatto che il documento comune dell’UE adottato in ambito PESD e
relativo alla missione Eulex, dopo aver giustificato l’esito finale del processo
politico richiamato nella risoluzione 1244, tuttavia si affretta a riconoscere
che i riferimenti del Preambolo al Kosovo come parte integrante del territorio
della RFJ e al rispetto del principio di integrità territoriale della RFJ non
siano vincolanti. Notoriamente, le clausole preambolari delle risoluzioni del
CdS non sono infatti vincolanti, al contrario del testo dispositivo, anche nei
casi in cui queste siano adottate ex Capitolo VII della Carta Onu. Ma risulta
del tutto infondata e in ultima istanza da respingere la posizione degli Stati
occidentali secondo la quale ciò che è espressamente affermato nella parte
dispositiva della risoluzione – l’integrità territoriale della RFJ e lo status
di mera autonomia del Kosovo – non debba considerarsi vincolante, mentre ciò
che fu concordato in un foro politico multilaterale privo di poteri vincolanti
ed estraneo al CdS, quale è il G8, e che non risulta inequivocabilmente sancito
nella risoluzione – ovverosia che l’esito finale del processo politico potesse
prevedere l’indipendenza del Kosovo – risulti invece vincolante, seppur
implicitamente.
Alla luce di questa analisi non può ammettersi la legittimità giuridica del
processo di secessione del Kosovo, ferma restando, in virtù del principio di
effettività sul piano meramente storico e di un progressivo e connesso
consolidamento delle istituzioni del nascente Stato da ipotizzarsi nel tempo,
la piena configurabilità quale soggetto di diritto internazionale dello Stato
kosovaro, in quanto sovrano ed indipendente, nel momento in cui tali requisiti
si assumeranno definitivamente acquisiti.