In Gran Bretagna l’università funziona. Ecco perché
10 Aprile 2008
La manifestazione che si è
svolta a Pisa lo scorso 9 aprile al Palazzo dei Congressi ha rilevato quelle
stesse mancanze nel sistema universitario italiano a causa delle quali nel 1994
decisi di lasciare il nostro paese per studiare in Gran Bretagna. Spiace
constatare che le pecche del sistema universitario italiano oggi restano esattamente
quelle che già avevo riscontrato più di 10 anni fa: l’assenza di competitività
tra gli atenei, la mancanza di mobilità per gli studenti all’interno dei vari
corsi di laurea ma anche nell’accedere alle successive specializzazioni, la scarsa
qualità dei corsi, i risultati mediocri conseguiti al termine dell’esperienza
universitaria; a tutto ciò va affiancato il valore effettivo minimo del titolo di
studio (nonostante l’enorme peso legale dello stesso), e l’assoluta assenza di
canali d’accesso privilegiati che colleghino l’università nel mondo del lavoro,
che ha portato negli anni alla propriamente definita “fuga dei cervelli”.
Quando ancora non si parlava
di Erasmus o di stage all’estero, e
si pensava che un periodo di studi in un paese straniero avrebbe certificato
anche in maniera ufficiale -e non solo ufficiosa- le capacità e qualità di una
persona, mi trasferii dunque presso l’Università di York, dove completai con
successo il corso di laurea ed in seguito un Master in Filosofia e Politica.
Ebbi presto modo di constatare la validità di quei sapienti accorgimenti che il
sistema universitario britannico ha saputo adottare e continua oggi a
perfezionare, i quali rendono gli studi accademici nel Regno Unito un’esperienza
estremamente gratificante per gli studenti così come per i docenti. Un sistema
da non importare in toto nel nostro
paese, certo, ma sul quale sarebbe opportuno riflettere per trarne alcuni utili
spunti di riflessione –esattamente ciò che si è cominciato a fare il 9 aprile a
Pisa.
L’assenza di competitività tra gli atenei
Si è lungamente parlato -e
talvolta criticato- il manifesto di eccellenza sottoscritto dai 19 atenei
italiani, i quali hanno formulato propri criteri di autovalutazione che
rispondessero adeguatamente ad una necessaria caratterizzazione di “eccellenza”,
appunto, nel panorama universitario italiano. Resta il fatto che l’AQUIS incarna
un sentimento comune al mondo accademico italiano: la mancanza di fiducia verso
il tentativo da parte dello Stato di definire quali siano gli standard
appropriati a valutare l%E2