In Russia il sistema è cambiato, ma l’arroganza è la stessa
31 Maggio 2007
La disputa sul monumento al soldato sovietico,
spostato dalle autorità estoni da una piazza principale di Tallin in località
più periferica, non è stata né poteva essere un episodio isolato. Tutte le principali
città dell’Europa centro-orientale a partire dal 1945 furono costrette ad
onorare con analoghi monumenti i “liberatori” dell’Armata Rossa: a Berlino se
ne trovano numerosi, sia nella parte orientale che in quella occidentale. Nella
grande Schwarzenbergplatz di Vienna il vittorioso guerriero comunista imposto
da Mosca è opportunamente nascosto dai getti d’acqua di una fontana. A Budapest
sulla collina Gellert una donna che dovrebbe rappresentare l’Unione Sovietica
tiene in alto una grande foglia d’alloro, che è però piuttosto simile ad un
pesce. Il popolo si affrettò a ribattezzare la statua “la pescivendola”. In
quella città tutti gli altri simboli del comunismo sono stati concentrati in
una sorta di museo-cimitero, dove chiunque abbia nostalgia di quei tempi o teme
di dimenticarne la tragica infamia può andare a vederli.
Si comprende come in tutti i paesi satelliti quei
simboli del passato servaggio siano odiati dalla grande maggioranza della
popolazione. Essi dovrebbero celebrare la liberazione dal dominio
nazionalsocialista e invece evocano il ben più lungo dominio
sovietico-comunista e principalmente proprio quel periodo della “liberazione”,
in cui centinaia di migliaia di concittadini furono uccisi, imprigionati,
depredati, deportati e migliaia di donne violentate. Non per nulla ognuno di
quei monumenti imposti dai vincitori è chiamato con macabra e dolorante ironia
“il monumento allo stupratore ignoto”. Recentemente è stata la Polonia a
decidere di eliminare nomi di città e di strade e altri simboli degli anni di
quel comunismo che con la dominazione sovietica fu strettamente legato.
Stupisce che alle proteste dei russi per le misure
di “pulizia monumentale” adottate dagli ex satelliti si associno anche delle
voci della “vecchia Europa”, che raccomandano di non urtare le suscettibilità
di Mosca. Non è chiaro perché si dovrebbe essere più attenti alla sensibilità
dei russi che a quella dei paesi che sono nostri alleati nella Nato e membri
dell’Unione Europea. Dopo tutto l’Italia non ha chiesto che i monumenti
dell’epoca fascista fossero lasciati al loro posto in Libia o Etiopia. E’ vero
che l’Italia ed il fascismo nel l945 hanno perduto la guerra e l’URSS ed il
comunismo l’hanno vinta, ma sia pure mezzo secolo dopo l’hanno perduta anche
loro. Per la Russia, però, non si tratta soltanto di salvaguardare le vestigia
di un passato vittorioso, ma anche e soprattutto di riaffermare la sua pretesa
di continuare ad influire sui paesi che costituirono il suo impero. Putin non
si è limitato a fare la voce grossa nei confronti dei vicini ormai emancipati
per la questione dei monumenti e del cambiamento dei nomi delle città e delle
strade, ma ha anche proclamato orgogliosamente durante il suo incontro con il
primo ministro lussemburghese: “non crediate di potere esercitare delle
pressioni su di noi”, accennando anche ai nuovi strumenti, in particolare
l’energia, di cui dispone per esercitare a sua volta delle pressioni sui
vicini.
Nel caso dell’Estonia, gli altri paesi dell’Unione
Europea misero abbastanza tempo per manifestarle una (tiepida) solidarietà. E’
sperabile che nelle altre controversie che l’arroganza di Putin potrebbe
suscitare, ad esempio sulla questione della difesa antimissilistica in Polonia
e Cecoslovacchia, il decantato spirito europeo sia più pronto e più energico.