L’industria europea è ancora al centro del mondo, ma per quanto?
06 Ottobre 2022
I duecento miliardi di sostegni che il governo tedesco ha recentemente messo a disposizione di famiglie e imprese per far fronte al caro bollette hanno riaperto il dibattito sul ruolo delle industrie nel Vecchio continente. La Germania si è indubbiamente guadagnata questo margine di manovra ed è legittimo che lo utilizzi, ma c’è un ma. Essendo quasi solo i tedeschi a poterselo permettere, in assenza di una politica europea comune, la conseguenza di questa scelta creerà ancora più asimmetrie nel sistema produttivo dell’UE. Il punto quindi non è se il governo Scholz sia stato egoista o sovranista, bensì quanto importante riterremo l’integrazione europea.
La globalizzazione prosegue, ma l’industria europea regge
Dagli anni ’90 la globalizzazione ha galoppato, nonostante diverse crisi, a partire da quella del debito sovrano nel 2008 e quella finanziaria nel 2011. Eppure, è rimasto importante il ruolo delle fabbriche dall’alto valore aggiunto. Nel 2018, la quota europea era pari al 38%, in calo di soli quattro punti rispetto al 2000. Considerando i beni intermedi, la centralità dell’Europa è ancora maggiore. Infatti, la sua percentuale rispetto al totale del commercio mondiale è del 39%, a fronte del 43% di ventidue anni fa.
Il commercio internazionale si può ulteriormente segmentare, analizzando la sola manifattura. L’Europa, anche grazie al ruolo dell’Italia, svolge un ruolo di primissimo piano. Parliamo, difatti, del 41,3% dei beni manifatturieri, rispetto al 45% del 2000. Un risultato analogo si registra nella dinamica dei beni manifatturieri intermedi. Nonostante il calo del 4,3% rispetto al 2000, la sua quota di commercio mondiale da ricondurre all’industria europea è pari al 39,3%.
Innovazione e politica industriale europea, cosa manca
I dati precedentemente citati sfatano il mito che la globalizzazione abbia distrutto il tessuto economico europeo, una narrazione che ha unito menestrelli stonati tanto di destra quanto di sinistra. Certo, va detto che qualcuno non ce l’ha fatta. Chi è rimasto sempre uguale, chi non ha innovato, chi non ha internazionalizzato, chi non è uscito dalla dimensione familiare. In sintesi, chi non ha accettato il nuovo spirito del tempo non ce l’ha fatta. Ma il tessuto imprenditoriale ha sostanzialmente retto l’urto del cambiamento e delle crisi.
Fermarsi a quest’analisi sarebbe comodo, tuttavia insufficiente. In primo luogo, l’integrazione europea ha fatto notevoli passi in avanti ma su alcuni temi c’è ancora scarso coordinamento sul piano comunitario. Così come ci sono delle difficoltà nell’avere delle politiche comuni in ambito energetico, ma anche di esteri e difesa, la grande “fabbrica europea” ragiona ancora con logiche nazionali, a discapito dell’efficienza.
Una politica industriale condivisa, d’altronde, potrebbe anche favorire l’emersione di un aspetto critico delle imprese europee: la scarsa propensione alla deep science e alle innovazioni disruptive. Questo auspicio non dev’essere colto nel senso dirigista, un po’ (troppo) italiano, per cui l’UE deve creare una “Amazon europea” o altre idee bislacche, tutt’altro. Significa favorire la maggiore integrazione dei sistemi industriali che potranno così ottimizzare i propri investimenti e, ad esempio, valorizzare i risultati della ricerca finanziata a livello sovranazionale. Siamo in ritardo sul futuro, ma non è ancora troppo tardi.