La demonizzazione della flessibilità è frutto della paura che logora la società

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La demonizzazione della flessibilità è frutto della paura che logora la società

09 Dicembre 2011

Il lavoro è un sorvegliato speciale del XXI secolo. Nessuno dubita infatti che sia in grado di oscurare o illuminare il futuro della convivenza visto che l’elevata occupazione vaccina dalla tensione sociale mentre la disoccupazione alimenta voglie violente.

Gli indirizzi evolutivi del Lavoro sono oggi tre: innovazione tecnologica, deregulation e flessibilità e su di essi la Società si interroga e la Politica divide. Si conoscono due modelli di lavoro: quello renano a capitalismo di Stato adottato dal cancelliere tedesco Adenauer nel secondo dopoguerra,e quello angloamericano neoliberista, figlio dell’esperienza industriale tessile della Gran Bretagna e decollato con il fordismo.

La base ideologica su cui poggia il primo vuole che l’organizzazione dei rapporti di lavoro competa alle organizzazioni di categoria mentre lo Stato è deputato a tessere una rete a maglie strette per la tutela sanitaria scolastica e pensionistica della popolazione. Il modello neoliberista poggia invece sull’ossessione americana per la libertà individuale e la Felicità (i.e.il successo): l’iniziativa privata e il mercato regolano i rapporti economico/produttivi mentre lo Stato disegna il perimetro regolamentare entro cui le imprese producono benessere attraverso i profitti, la creazione di posti di lavoro e gettiti fiscali adeguati a sostenere la socialità.

Alla prova dei fatti ambedue hanno fallito: il modello <a capitalismo misto>ha difatti contenuto le disuguaglianze ma non il debito pubblico e l’inflazione che sono divenute piaghe; il <liberalismo>ha invece tenuto a bada la disoccupazione ma consentito disuguaglianze tali da trasformare status di benessere personale in classi sociali. In questo contesto l’innovazione tecnologica ha spinto il Mercato a pretendere la deregolamentazione dei processi produttivi e un modello di lavoro<flessibile>.

La flessibilità nasce dunque per mantenere in equilibrio un sistema economico stressato da esigenze di produzione che pretendono livelli di occupazione ad accordion di fisarmonica. Di alcune sue implicazioni una certa politica ha però approfittato per fare della flessibilità sinonimo di precarietà dell’<innovazione> sinonimo di aumento della disoccupazione e della<deregulation>sinonimo di selvaggismo imprenditoriale.

Questa demonizzazione è stata facilitata dal fatto che innovazione deregolamentazione e flessibilità incidono il modello organizzativo della produzione sotto il profilo delle dinamiche dei costi della produttività che una maggiore competitività tende a mantenere rispettivamente bassi (i costi) e elevati (la produttività) all’occorrenza operando sui livelli occupazionali.

Bisogna ammettere che un sistema economico etico rifiuta qualunque salto di competitività basato sulla riduzione dei livelli occupazionali perchè equivarrebbe a ritenere etico un sistema nel quale i benefici avvantaggiano solo alcuni talvolta a scapito di altri; va però riconosciuto che non è etico neppure un sistema economico bloccato su modelli produttivi incoerenti con le esigenze di sviluppo. Questo La bifilarità ha certamente contribuito a fare della flessibilità il boogeyman del Mondo del lavoro però a indicarla quale esclusiva causa di precarietà e insicurezza sono stati quelli per i quali le belle parole contano più dei buoni fatti e la flessibilità descrive il cocktail di <outsoursing> e <offshoring> condito con una punta di <downsizing> e mezza di <delayering> che annichilisce il lavoro sotto quello psicologico dei lavoratori non sotto quello economico/produttivo. 

Le emancipazioni industriali che hanno reso la flessibilità l’unica declinazione possibile del lavoro sono conseguenza dei salti tecnologici che hanno consentito di liberare produzione e commercio dai vincoli geografici e di offrire beni e servizi in modalità elettronica. Gli effetti di queste emancipazioni possono essere colte seguendo il caso di Rico, il protagonista non del tutto immaginario del primo romanzo sociale.

A Rico non manca del padre Enrico solo una parte del nome bensì la stabilità emotiva che promana da un lavoro nel quale il genitore sapeva sempre cosa faceva,faceva sempre quello che sapeva fare e sapeva per quanto tempo lo avrebbe fatto. Causa il suo lavoro Rico alterna esaltazione e depressione ma a renderlo instabile non sono le modalità <deregolate e flessibili>: i lavoratori della cartiera di Diderot (impegnati routinariamente a coprire l’intero ciclo mansionistico della produzione) e quelli della spilleria di Adam Smith (impegnati altrettanto routinariamente in una sola delle mansioni) non erano meno alienati depressi e impauriti di Rico né lo era il padre Enrico.

Cartieristi e spilleristi non si consolavano affinando il ritmo del lavoro e i tantissimi “Enrico” non si consolavano al pensiero di poter offrire il rigore lavorativo come esempio di comportamento morale al proprio figlio, però attraverso il lavoro sentivano crescere in loro l’autostima sapendo di porre le basi per offrire alla famiglia una casa di proprietà e ai figli la possibilità di studiare per costruirsi un futuro migliore.

Conclude Sennet che Rico è instabile perchè il suo lavoro ne mina l’autorità all’interno della famiglia cui non può offrire un modello di comportamento etico misurato alla somma dei risultati ottenuti ma sbaglia, perché dimentica di rilevare che in quella condizione Rico si trova per impossibilità di tenere il suo lavoro fuori dalla porta di casa in quanto ha preteso di esportarlo nella sfera pubblica per ottenere l’istituzione di status di cui farsi forte.

Per anni gli antagonismi economici dei lavoratori sono stati prospettati come conflitti politici e i diritti dei lavoratori rivendicati sotto forma di maggiore retribuzione e tempo libero. Alla loro soddisfazione è stato sacrificato l’equilibrio del rapporto costo/livello di produttività così oggi il nemico è diventata l’incertezza di durata dell’impegno lavorativo che ne è derivata. Si sostiene che per la precarietà che pretende, la flessibilità riduce al minimo la possibilità di scelte definitive e rapporti personali profondi: ma è proprio così? E’ tanto peggiorata la situazione? O sono sintomi di patologie lavorative sconosciute che si manifestano con modalità espressive diverse?

L’operaio della cartiera viveva per lavorare e per i tanti “Enrico” era lo stesso, anche se riuscivano a lavorare e vivere. Invece Rico,come molti precari, lavorano per vivere e quando non riescono a lavorare, lo Stato è comunque lì a aiutarli a sopravvivere. Inoltre pur sognando per i figli un futuro diverso non invocano, per loro, le certezze connaturate al lavoro dei nonni.

Altri sostengono che a imporre la <flessibilità> sarebbero stati gli uomini di Davos: i banchieri, economisti, opinion-makers e politici che nel corso di annuali riunioni cercano, tra una sciata e un cocktail-martini, ideano sempre nuovi escamotage per aumentare il loro potere e massimizzare i guadagni. Forse non tutti i timori sono infondati ricordiamo però che gli uomini di Davos, seppur per altruismo egoistico, si preoccupano dell’occupazione e di salari dignitosi dato che i lavoratori sono fonte significativa di domanda economica.

Appena un secolo fa i problemi del lavoro erano le incolumità fisica, sanitaria e alimentare, oggi sono le patologie legate alla dissociazione della coscienza e dei comportamenti relazionali. Queste però non sono esclusive del Mondo del lavoro perchè figlie della paura che attanaglia l’intera società. Intendo la paura <liquida> suscitata dall’incertezza, dalla provvisorietà e dall’indecisione, quella che,dice Barman ci costringerebbe nella condizione di chi vive correndo giù per la montagna della vita, nella convinzione che solo se continua a correre può mantenere l’equilibrio mentre se prova a fermarsi si sfracellerà ma non, come un secolo fa, contro l’indigenza bensì contro le rinunce! La tensione sperimentata dai protagonisti del mondo del lavoro non è causata tutt’al più agevolata dalla nuova configurazione temporale del rapporto di lavoro e comunque non è paragonabile alla tensione provocata, decenni addietro, da orari massacranti e settimane lavorative di sette giorni. 

L’assonanza concettuale di <possibilità> con chance (almeno nell’accezione di <desiderio mai soddisfatto di vita> sviluppata secondo Toscano da Weber) deve viceversa indurre a percepire la flessibilità come problema di equilibrio da risolvere con la formula <nessun rischio nè costi eccessivi per alcuno> trovando risposte adeguate a domande quali: in un sistema economico misto quanto ci vuole di capitalismo di stato e quanto di neoliberalismo?

Quanto di responsabilità e libertà individuali e quanto di copertura sociale pubblica? L’organizzazione ad arcipelago della grandi aziende – quelle con il famoso continente di potere circondato da isole ed atolli che lavorano esposti al rischio di essere sacrificati come barriere difensiva contro i tifoni ed i rovesci delle crisi economiche – quanto sono frutto di lucida premeditazione della domanda di lavoro e quanto conseguenza di nuove esigenze individuali e collettive dell’offerta di lavoro? Quanto le nuove articolazioni temporali del lavoro sono frutto delle esigenze delle donne/madri e degli uomini /padri, degli studenti lavoratori e delle nuove classi lavoratrici giovanili che prediligono l’impegno a breve termine e un lavoro che dia quanto basta per una quotidianeità piacevole come quella perseguita dai Furita o dai Geeks?

Viene alla fine il sospetto che contro la flessibilità il Mondo del Lavoro concentri la frustrazione che pandemizza la società attuale in particolare quella che origina dall’ossessione per la possibilità di offrire alle persone care gratificazioni infinite nella speranza di conquistarne l’affetto e suscitare la stima e l’invidia degli altri. L’aleatorietà del lavoro e l’incertezza della sua durata certamente incidono sulla condizione psicologica del lavoratore ma va ricordato che la flessibilità rimane una modalità del lavoro contemporaneo e che è solo la paura del futuro a indurre i lavoratori a indicarla quale causa dell’incertezza che li spaventa quando invece essa è di tutta la società e ha ben altre cause.