
La digitalizzazione delle aree fragili come chiave del cambiamento

25 Aprile 2025
di Ilaria Rizzo
Un tempo, la frattura territoriale italiana si misurava lungo la linea Nord-Sud. Oggi, quel discrimine appare riduttivo. È emersa una faglia più profonda e trasversale, che oppone i grandi centri urbanizzati — dotati di infrastrutture, capitale umano e capacità amministrativa — alle aree interne, spesso montane, periferiche, segnate dalla rarefazione dei servizi essenziali, dallo spopolamento e, in non pochi casi, dalla memoria ancora viva di eventi sismici devastanti.
Sono queste “terre di mezzo” a costituire il vero banco di prova per una politica che voglia essere insieme di coesione e di sviluppo. Perché se è vero che i giovani continuano a cercare altrove un futuro, è altrettanto vero che senza un’inversione di tendenza nei territori fragili non ci sarà riequilibrio possibile. La modernità non può essere concentrica: o è diffusa, o non è.
In questo quadro, la digitalizzazione rappresenta non soltanto una leva tecnologica, ma una sfida di civiltà. Lo è per quei territori colpiti da calamità naturali, dove la ricostruzione non può limitarsi alla restituzione di ciò che c’era, ma deve puntare a un salto di qualità. E lo è, più in generale, per tutte le aree interne: lì dove la geografia penalizza l’accesso ai servizi, è la rete a poter supplire; dove mancano presidi sanitari o istituti scolastici, la telemedicina e la didattica digitale possono aprire possibilità nuove.
Ma tutto questo, per funzionare, richiede visione, competenze e governance. È necessario creare un ecosistema in cui la trasformazione digitale non sia una voce di bilancio, ma una cultura condivisa. Servono amministrazioni capaci di ricevere, archiviare, proteggere e valorizzare i dati. Serve, in una parola, formazione. Come ha ricordato Mario Draghi, non si è investito abbastanza né sull’innovazione né sulla competitività.
Un esempio virtuoso può venire dall’Italia centrale. Un’area che può essere strategica anche sul piano geopolitico, basti pensare alla proiezione sull’Adriatico e alla contiguità con i Balcani. Oggi, con l’allargamento dell’Unione Europea verso Est, quella collocazione è di grande attualità. I Balcani sono produttori di materie prime e, sempre più, partner commerciali. Il Centro Italia potrebbe diventare un nodo logistico, un ponte naturale tra Mediterraneo e Mitteleuropa.
Ma per farlo serve vedere nelle criticità un’opportunità. Bisogna unire rigenerazione ambientale, innovazione tecnologica e valorizzazione culturale. Una visione che non si limiti a risarcire il passato, ma progetti il futuro. Perché le aree interne non sono scarti del tempo, ma riserve di senso. E possono dare ancora molto al Paese.