La fine di un sogno: Obama e il Medio Oriente

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La fine di un sogno: Obama e il Medio Oriente

16 Aprile 2011

Nel vortice del tumulto mediorientale, è facile perdere di vista il fatto che la strategia scelta in origine dall’amministrazione Obama per la regione è andata in frantumi. Ne ricordiamo gli elementi principali. Mano tesa ai mullah iraniani, per dimostrare le buone intenzioni dell’America e indurre una suggestione benevola negli eredi di Khomeini che potesse far loro abbandonare le ambizioni atomiche. “Parlare” con la tirannia siriana, nella speranza di attirarla lontano da un abbraccio decennale con Iran, terrorismo e anti-americanismo. Dare credito alla favola secondo cui le radici di tutti i problemi del Medio Oriente affondano nel conflitto palestinese, che il più grande ostacolo verso la pace sia costituito dagli insediamenti israeliani e che dimostrare l’equidistanza americana mostrando i muscoli all’alleato israeliano possa guadagnarci le simpatie del mondo arabo/musulmano. Rifiutare “l’agenda della libertà”, tagliando i programmi di democratizzazione e rendendo ben chiaro a tutti che la politica estera statunitense è tornata a un testardo realismo, che poco si preoccupa del modo in cui i regimi del Medio Oriente trattano, o bistrattano, i loro popoli. E, naturalmente, lasciarsi alle spalle il più presto possibile un progetto, l’Iraq, che è stato realizzato soltanto a metà per mezzo di una guerra che si presume illegale e immorale.

Di tutte queste cose restano cocci. Le aperture obamiane verso Iran e Siria sono state accolte con un prevedibile disprezzo. La sua fissazione donchisciottesca di arrivare ad un accordo miracoloso ha lasciato i negoziati di pace in alto mare. L’esplosione delle rivolte popolari all’inizio in Iran, nel 2009, e poi in tutte le terre arabe, ha mostrato la pochezza intellettuale della studiata indifferenza di Obama verso il deficit di democrazia della regione. Allo stesso modo, l’apparente incapacità del presidente di comprendere che un successo in Iraq costituisce per l’America un interesse vitale, e la sua corsa a capofitto per un’uscita dal paese entro il 2011, ha reso fragile quell’esperimento di democrazia, lasciandolo in balia della Repubblica islamica d’Iran.

L’istinto di dare rassicurazioni ai nemici giurati, di ignorare i vecchi amici, di diffidare dell’esercizio della potenza americana, sono le note dominanti che una regione travagliata ha sentito arrivare dall’incerta tromba di Obama per gran parte degli ultimi due anni. “Dov’è la leadership americana?”, “Qual è la politica americana?”, “Chi comanda?” sono le fondamentali domande sulle intenzioni e gli scopi dell’America che preoccupati leader mediorientali girano, invano, agli amici che vengono a trovarli dagli Stati Uniti. L’infelice risultato? Un diffuso e corrosivo senso di declino della potenza americana. Avversari imbaldanziti che trovano il coraggio di lanciare qualunque sfida. Amici disamorati costretti ad inseguire con mezzi limitati, tanto in casa come all’estero, una sicurezza e una sopravvivenza precaria. Una regione vitale per gli equilibri mondiali portata ogni giorno di più verso il punto di ebollizione, a metà strada tra rivoluzione, caos, guerra civile; una regione che oscilla tra le aspirazioni di egemonia persiane e la ferma determinazione di un antico padrone, che cresce incerta pur nella giustezza della propria causa e nella consapevolezza di quanto sia faticoso assumere una leadership.

Sono tante le muse ispiratrici delle mal consigliate politiche che il presidente ha portato alla Casa Bianca. Una visione del mondo in gran parte modellata sugli sproloqui di sinistra che pervadono gran parte di quello che nel mondo accademico americano passa per studi mediorientali. L’ossessione di distinguersi in ogni cosa da Bush. E la convinzione incredibilmente naif secondo cui a lui, Obama, bastava mostrarsi al mondo – con la sua storia, la sua personalità, il suo carisma – per potere in qualche modo trascendere le leggi immutabili di un sistema internazionale dominato dagli interessi nazionali; un sistema di cui, per di più, fanno parte paesi governati da tirannie che percepiscono la loro stessa sopravvivenza come inestricabilmente legata all’umiliazione della potenza, dell’influenza, del prestigio dell’America. Il “fattore Obama”, come tante altre cose nella politica mediorientale del presidente, non è sopravvissuto al primo contatto col nemico.

E adesso, cosa? Ci sarà una politica mediorientale obamiana 2.0? In una certa misura, la Casa Bianca non ha scelta. E’ impantanata nella realtà. L’irriducibile ostilità iraniana di fronte alle ripetute offerte di dialogo da parte di Obama hanno demolito la sua strategia del colloquio, non lasciandogli altra scelta che ricorrere, sia pur di malavoglia, al bastone delle sanzioni. Analogamente, l’esplosione delle proteste in tutto il Medio Oriente, che minacciano tanto i regimi ostili quanto quelli amici dell’America, ha spinto democratizzazione e riforme in cima all’agenda dell’amministrazione, che lo volesse o meno.

Ma molto, molto di più va fatto per portare avanti gli interessi dell’America. Dopo aver coinvolto gli Stati Uniti nella lotta, la guerra in Libia deve essere portata a una rapida conclusione, con Gheddafi rimpiazzato da un regime più presentabile, e non terrorista. La rivoluzione egiziana ha bisogno di un aiuto che la porti a un atterraggio morbido che limiti la Fratellanza Musulmana, promuova le forze liberali e preservi il ruolo di bastione della moderazione che quel paese ha sempre avuto nella regione. Alla politica per l’Iraq va subito tolto il pilota automatico, e il presidente dovrà prima o poi impegnarsi in prima persona nel compito di definire legami di sicurezza Usa-Iraq che guardino oltre al 2011, e che salvaguardino al massimo gli importanti successi costati all’America così tanti soldi, e così tanto sangue.

Ma forse la cosa più importante da fare è tentare tutto il possibile per portare in Iran e in Siria la potenza delle rivolte del 2011. La Siria – il ponte terrestre tra Iran e Hezbollah, la molestatrice dell’indipendenza libanese, il rifugio per i terroristi palestinesi, la complice dei jihadisti che hanno ucciso i soldati americani in Iraq – è stata già scossa violentemente da diverse settimane di proteste. Il minimo che ci si deve aspettare dall’amministrazione Obama è che eviti di fare qualunque cosa che possa dar linfa politica al regime di Assad. Quanto all’Iran, deve essere rapidamente sviluppata una strategia che punti al rafforzamento del movimento verde che, seppur provato, è ancora vivo, e aspetta l’opportunità di sfidare ancora una volta le fondamenta della Repubblica islamica.

Naturalmente, è stato con l’Iran nel 2009 che l’autentica follia della politica estera obamiana ha avuto il suo più tragico epilogo. All’apogeo del movimento verde, con la Repubblica islamica sull’orlo del collasso – quando i manifestanti gridavano “Obama, stai con noi o con il regime?” – il presidente restò paralizzato, muto e distaccato, preoccupato che abbracciare la libertà iraniana potesse mettere a rischio un suo successo diplomatico con gli assassini di Neda Soltan. Venne perduta la storica opportunità di por fine alla trentennale guerra dei mullah contro l’America, di spazzar via la nube minacciosa di un Iran potenza atomica, di inserire un cuneo nel cuore dell’islamismo radicale. Immaginarsi come risuscitare tutto questo,e fare ammenda per quel monumentale errore strategico, sarebbe, per Obama, un buon punto di partenza per iniziare la costruzione di una strategia mediorientale sostenibile per i due anni finali del suo mandato.

© National Review Online

John Hannah è stato consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney.