La partitocrazia di Casini alimenta l’antipolitica
20 Febbraio 2008
L’articolo di Gaetano Quagliariello (Berlusconi e Casini: cosa c’è sotto il simbolo) merita alcune considerazioni aggiuntive, forse meno legate all’attualità politica, ma attente, oltre che all’equilibrio del sistema politico, anche all’evoluzione della società italiana.
Nel suo intervento Quagliariello parla della scelta di Berlusconi di rompere con Casini come di un ritorno allo spirito del 1994. Si tratta di un richiamo opportuno, soprattutto se non lo si intende come un omaggio retorico.
Cerchiamo di riassumere cosa significò quella, oramai lontana, stagione politica. In una situazione di crisi e delegittimazione galoppante della politica, per merito soprattutto di Berlusconi, il sistema politico italiano venne orientato lungo l’asse destra/sinistra, uscendo dalle secche del centrismo. Si trattò di un risultato che si può definire storico. L’Italia, dall’unità in avanti, era sempre stata governata da regimi centristi. Così nel sessantennio liberale; così (dopo la dittatura fascista) nella lunga stagione del dopoguerra. Nel giro di pochi mesi, invece, si aveva un allineamento a quegli standard di civiltà europei che gli osservatori politici più avvertiti avevano sempre auspicato.
Da allora, questo equilibrio non è stato più messo in discussione, e le elezioni politiche si sono sempre configurate come un confronto tra due schieramenti per la guida del paese. Dal voto per i partiti, cioè per la rappresentanza, si è passati al voto per il governo. Questo risultato si è man mano annacquato per le resistenze partitocratiche. Il ribaltone del 1994 interruppe un processo che avrebbe portato in tempi ragionevoli ad un rapido sfoltimento del numero dei partiti. Qualche anno dopo, a maggioranze mutate, il secondo ribaltone del 1998 tornava a scindere quel collegamento tra elezioni politiche e governo che costituiva il nocciolo duro della rivoluzione delle 1994. Dopo questo secondo colpo quasi mortale la situazione torna a farsi confusa. Così convivono due universi politici. Da un lato una pulsione verso la democrazia immediata: governi di legislatura decisi dagli elettori, scelte precise su pochi punti programmatici. Dall’altro tutti i rituali della peggiore partitocrazia: governi distillati in base ad alchimie esoteriche, verifiche, vertici, confusione tra elezioni politiche ed elezioni amministrative. La contesa politica non si modernizza, ma si appanna. Ecco spuntare i fantasmi dell’antipolitica, ecco le lamentele o giaculatorie dei moralisti di turno su di una politica ridotta puro spettacolo.
Adesso, con le prossime elezioni, i nodi sembrano venire al pettine. Non è possibile tenere assieme il rinnovamento politico con i calcoli di bottega, occorre volare più alto. Queste preoccupazioni sono percepite anche dai vertici del PdL. Per capirlo basta far riferimento a un’intervista concessa qualche giorno fa da Berlusconi a La Stampa. In quella occasione il leader del PdL spiegava: “Vedete, non ho l’imperativo categorico di vincere queste elezioni. O vinco alla mia maniera, con un largo margine, e riesco a governare come voglio, facendo le cose che servono al Paese e ai cittadini. O altrimenti niente, alla mia età non voglio logorarmi in trattative estenuanti”. Poi, parlando di Casini, aggiungeva: “se vinciamo le elezioni con un largo margine, lui può ricominciare il gioco delle trattative estenuanti del 2001 verso il quale io ho maturato un’avversione antropologica”.
In altri termini, per intendere la posta in gioco non si può ridurre la contesa a una valutazione di calcoli tattici, che potranno avere ricadute più o meno positive sul sistema politico, ma occorre far riferimento, sia pure in modo sommario, alla evoluzione della società italiana. La rivoluzione del 1994 non fu un’escogitazione estemporanea, riuscita per un insieme di circostanze favorevoli (scomparsa dei partiti storici, controllo dell’etere e possibilità d’indirizzare il popolo bue con promesse da imbonitore), ma fu il tentativo di adeguare la forma di governo a un cambiamento epocale sopravvenuto negli ultimi decenni. Fu un modo di prendere atto, sia pure confusamente, che la società italiana, pur con tutti i suoi difetti, era profondamente mutata e non poteva tollerare più di avere un sistema politica gestito con i rituali bizantini della prima repubblica. Necessitava un sistema bipartitico orientato sul governo, capace di scelte definite. Che le cose stiano così lo dimostra il fatto che la svolta del 1994, per quanto aspramente combattuta dal vecchio establishment politico, ha retto la prova di diverse elezioni e appare alla gran parte degli elettori una essenziale conquista di civiltà. In conclusione le prossime elezioni sono un tornante storico, non solo per la funzionalità del sistema politica, ma per il rapporto tra società e politica. Forse la manovra centrista di Casini potrà anche riuscire ma, ridando fiato alla partitocrazia, renderebbe davvero difficile ricucire il rapporto tra società e politica. Se ciò avvenisse, l’avversione antropologica, non più per i partiti parassiti (come l’Udc), ma per l’intera classe politica, tornerebbe a manifestarsi in forme dirompenti.