La resa di Fassino

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La resa di Fassino

19 Marzo 2007

Piero Fassino ha perfettamente ragione quando – per
giustificare la sua idea di aprire trattative con i Talebani sul futuro dell’Afghanistan
– dice che “la pace si fa con i nemici”. C’è però un elemento che sembra
sfuggirgli, e cioè che la pace si fa con i nemici sconfitti.

Oggi i Talebani sono in piena rimonta, forti dei
proventi della vendita dell’oppio e delle divisioni nella coalizione alleata,
fronteggiano spavaldamente l’offensiva di primavera dell’operazione “Achille”.
Controllano intere provincie e con i rapimenti mirati mettono sotto scacco i
governi europei, mentre con i continui attentati kamikaze tengono la popolazione
civile in ostaggio e seminano l’odio verso le truppe occidentali. Trattare con
i Talebani oggi vuol dire trattare con chi ha il kalashnikov dalla parte del
manico.

In realtà tutto questo Fassino lo sa benissimo ma
non lo può dire per un’altra semplice considerazione: per sconfiggere i nemici
bisogna fare la guerra. Se dunque Fassino dicesse le cose come stanno, invece
di ricevere la ola della sinistra della
sua maggioranza sarebbe sommerso dai fischi.

Dovrebbe infatti dire che quella in Afghanistan è
una vera guerra, che serve ad impedire ai Talebani di riconquistare il paese
ora retto dal legittimo governo di Karzai, che per vincerla i soldati (italiani
compresi) devono sparare, attaccare, persino uccidere.

La posizione del governo invece è tutt’altra: si
condensa nella stolida affermazione di Prodi “non un uomo in più, non un
chilometro in più per l’Afghanistan”. Vuol dire che gli italiani se ne devono
stare al sicuro nella provincia di Herat a costruire pozzi e trincee, che a
fatica possono difendersi armi in pugno (ma deve essere proprio legittima
difesa), e quanto succede nel resto del paese non è cosa che ci riguardi.

Con queste promesse l’auspicio di Fassino rischia
di realizzarsi capovolto come nei peggiori incubi. Il tavolo lo chiederanno i
Talebani da vincitori e lasceranno alle forze alleate il posto dei nemici
sconfitti che a capo chino parleranno non di pace ma di resa.