
La scommessa di Édouard Philippe, smarcarsi senza rompere con Macron

02 Giugno 2023
di Michele Ceci
Fra i tanti possibili requisiti di un futuro inquilino dell’Eliseo, l’ex Primo Ministro Édouard Philippe, oggi sindaco di Le Havre, ha diverse buone carte da giocare: un invidiabile profilo istituzionale, un certo état d’esprit nazional-gollista e persino un nome e un cognome, “Edoardo Filippo” che – se tradotti in Italiano – potrebbero quasi rispolverare regali memorie, ancorché in un Paese in cui di re e regine è meglio non parlare.
Chi è Édouard Philippe?
Qualcuno lo definisce come l’arcano dell’ala di destra della Macronie, l’orbita intorno a cui gravitano i sostenitori dell’attuale Presidente della Repubblica. Sicuro è che, malgrado i numerosi detrattori – più influenti nelle stanze del potere che presso l’elettorato – Édouard Philippe gode di una popolarità apparentemente inossidabile. Da quando, nel luglio 2020, ha lasciato Palazzo Matignon, pochi mesi dopo la prima ondata di restrizioni da Covid-19, l’odierno sindaco della città portuale di Le Havre non ha mai abbandonato velleità politiche nazionali, ma ha sempre preferito tenersi a debita distanza dai picchi più incendiari del dibattito pubblico, incluso l’acceso confronto sulla riforma previdenziale affrontato da Élisabeth Borne, attuale Primo Ministro.
Qualche malizioso luogotenente politico di Emmanuel Macron lo ha addirittura criticato per uno “scarso sostegno mediatico” all’innalzamento dell’età pensionabile. Philippe ha subito preferito smentire, asserendo di sostenere “senza ambiguità” il governo Borne e prediligendo argomenti classici della retorica politica francese quali la preferenza per “lo sforzo e il lavoro” rispetto al trambusto delle “casserolades” (letteralmente “casseruole”, manifestazioni molto rumorose).
In riserva per davvero?
Se l’ex Capo del governo, dopo tre anni funestati dapprima dal trauma dei gilet gialli e poi dall’improvvisa deflagrazione della pandemia, avesse lasciato la politica ufficialmente, nessuno si sarebbe sognato di contattarlo per socializzarlo alla prospettiva di “succedere” a Emmanuel Macron. Così è successo a Jean Castex, che ha preso il suo posto e, dopo la rielezione del Presidente, ha optato per un più tranquillo posto “tecnico” alla guida della RATP, l’azienda dei trasporti pubblici parigini, dove nel peggiore dei casi si può essere rincorsi dai giornalisti del Parisien nelle giornate di sciopero.
Édouard Philippe, invece, ha preferito sintonizzare con le priorità presidenziali lo schieramento di parlamentari a lui fedele – unito nel gruppo di Ensemble, coalizione di supporto della Macronie – e mettersi, almeno temporaneamente, in ritiro spiritico. Horizons, formazione da lui guidata, è un partito che solletica più i giornalisti che non gli elettori, peraltro poco abituati alle bizze della partitocrazia perché socializzati a un sistema in cui le dinamiche di parte hanno sempre avuto un peso limitato, sia negli onori della cronaca che nel presenzialismo politico. Ma Philippe piace.
Piace per la capacità che ha di riavvicinare le istituzioni, a partire dagli enti locali, al popolo. È sindaco, in un periodo in cui si discute molto, in Francia, di come rafforzare la tutela e la sicurezza degli amministratori cittadini, dopo l’attentato incendiario e le minacce di morte che hanno spinto Yannick Morez, sindaco di Saint Brévin nella Loira, a rassegnare le dimissioni. A Laurence Ferrari, notista politica di Paris Match e conduttrice radiotelevisiva di CNews e Europe 1, l’ex Primo. Il ministro ha rilasciato alcune dichiarazioni non certo risolutive dell’enigma del post-Macron, ma comunque indicative di quella che potrebbe essere “l’agenda Philippe”.
La scommessa “repubblicana” fra conservatorismo e progressismo
“La Francia che amo conosce la sua storia ed è fiera della sua grandeur” dice Édouard Philippe. Zemmour? Tutt’altro. Nell’unico Paese europeo a poter vantare ancora qualche remota ambizione di potenza e, soprattutto, nel Paese più diffidente nei confronti delle linee di divisione politica angloamericane – basate quasi esclusivamente sulle politiche pubbliche, le policies – essere di destra implica soprattutto di riaffermare una polity, un certo pensiero nazionale, un discorso identitario, unico possibile trampolino di (ri)lancio di un progetto politico moderato e non reazionario.
Indignato degli spettacoli aberranti andati in scena all’Assemblea Nazionale in occasione del voto sulla riforma delle pensioni, atterrito dal fatto che il ministro del Lavoro Olivier Dussopt si sia fatto definire “assassino” da alcuni parlamentari d’opposizione, Philippe si descrive come un discepolo iniziato della “promessa repubblicana”.
In altri termini, afferma di riconoscersi nella scommessa ideale secondo cui, grazie alla scuola, al progresso economico e sociale e alla solidarietà nazionale, un lavoratore francese potrà sempre riporre buone speranze sul più radioso avvenire che spetterà ai suoi figli. È un uomo di coesione, il sindaco di Le Havre. Teme una Francia che non ha più fiducia della sua classe politica, nonostante il ricambio generazionale. Cita Renan e Péguy, due decani dell’intellettualità conservatrice transalpina, e insiste molto su quella che reputa essere “la madre di tutte le riforme”: l’istruzione, o, per meglio dire, l’Educazione Nazionale.
Il “precedente Pompidou” e le difficoltà della successione
Se il discorso programmatico philippista non spicca per nitidezza, la candidatura presidenziale dell’ex inquilino di Matignon appare men che meno un percorso in ascesa libera, e questo non perché il 2027 non sia dietro l’angolo, né per le responsabilità politiche che un’eventuale elezione potrebbe comportare. Già l’istituto stesso della “successione”, se applicato a un Presidente eletto e che al momento non dispone neppure di maggioranza all’Assemblea Nazionale, non ha un rimando propriamente repubblicano.
Su questo terreno, già si sprecano speculazioni politiche di sorta: qualche ardito teorico dei complotti arriva a ipotizzare che Macron stia pensando alla personalità più adatta ad assicurare un “interregno” che gli permetta di ripresentarsi nel 2032. Di scarso credito è anche la possibilità che Philippe possa farsi interprete di un momento politico affine, per certi aspetti, a quello che condusse al trionfo di un gollista moderno e aperto alle istanze di progresso quale fu Georges Pompidou, ex Primo Ministro e successore del Generale De Gaulle all’Eliseo dal 1969 al 1974.
Uscito vincitore dalla sfida delle contestazioni sessantottine, grazie a posizioni meno intransigenti di quelle del Presidente sulla riapertura delle università, Pompidou ebbe a raccogliere un testimone sicuramente non ringiovanito dal tempo, ma anche ascritto a un mito imprescindibile della storia nazionale. Tutt’altra situazione rischia di spettare al sindaco di Le Havre, cui toccherà confrontarsi con ostacoli difficilmente sormontabili: su tutte, quella di un lascito impopolare, di un Presidente privo di maggioranza, in una Francia sempre più polarizzata e con una popolazione stregata dai proseliti estremisti di due demagoghi di prima riga, Marine Le Pen e Jean Luc Mélenchon.
Gli ostacoli per l’ascesa di Édouard Philippe
Emerge pertanto, per Philippe, l’annoso dilemma di un’equazione insolubile: smarcarsi da Macron pur senza andare alla rottura. Paradossalmente, i rapporti fra Horizons e Renaissance, partito presidenziale, non sono idilliaci. Quando i deputati filippisti avanzano proposte per ristabilire pene minime per gli atti di violenza contro le forze dell’ordine, i macronisti si dilettano nell’arte del mutismo selettivo o agitano lo spettro del populismo. Fra Macron e il suo ex braccio operativo, infatti, le relazioni sono sempre state franche e sincere, ma mai più di tanto amicali o gioviali.
I competitor strategici
Nella categoria pesi massimi, per giunta, si affaccia un potenziale concorrente alla successione, leggasi François Bayrou. Costui appartiene alla vecchia guardia della politica francese, ha già tre candidature presidenziali alle spalle ed è considerato – al pari dell’ex consigliere e dietrologo di François Mitterrand, Jacques Attali – lo “scopritore” politico di Emmanuel Macron, nonché regista della prima elezione dell’attuale Capo dello Stato. Senza l’appoggio di Bayrou, probabilmente, Macron avrebbe infatti presto ripreso la via di una carriera negli istituti di credito e François Fillon, candidato della destra gollista al primo turno nel 2017, siederebbe comodamente sull’ambita poltrona presidenziale.
Di contro, secondo il colonnista di Marianne David Desgouilles, Philippe – senza il sostegno decisivo del nume tutelare che lo ha battezzato Primo Ministro nell’anno del suo approdo all’Eliseo – non sarebbe che un modesto deputato dei Républicains, noto forse ai telespettatori di LCP, emittente licenziataria delle sedute parlamentari. Nella batteria ministeriale, si vocifera che anche due fedelissimi “quartiermastri” del Presidente stiano sondando il terreno e scaldando i motori in vista del 2027: Gérald Darmanin, il ministro dell’Interno che tanto ha fatto parlare di sé, e Bruno Le Maire, attuale capo del dicastero delle Finanze. I due, tuttavia, non competono allo stesso livello di Philippe e, per certi aspetti, avrebbero scarse probabilità di giocare davvero una partita di sfida aperta agli estremi, a causa della loro sovraesposizione mediatica di questi anni e di risultati altalenanti sul fronte delle rispettive politiche pubbliche di competenza. Le Maire, peraltro, non sarebbe nuovo a performance competitive di discutibile successo: candidatosi alle primarie dei Repubblicani nel 2016, totalizzò un non proprio formidabile 2,4 %.
Il timone conteso
È dunque alle pendici di un terreno scosceso che potrebbe partire la corsa del patron di Horizons. Édouard Philippe, allievo senior cresciuto a pane e Alain Juppé, alfiere della convergenza fra la destra e il centro, dovrebbe anche confrontarsi con l’eventuale candidato dei Repubblicani.
Oramai ridotti a notabile rudimento parlamentare di una Francia che ha già sanzionato il suo divorzio dai partiti tradizionali, gli ex gonfalonieri del pensiero gollista non si danno per vinti. Il tandem fra Laurent Wauquiez, candidato in erba, ed Éric Ciotti, Presidente del partito, promette di spendersi per capitalizzare sull’impopolarità di Macron e scongiurare a LR (Les Républicains, ndr) le funeste sorti del Partito Socialista. Magari, chissà, con la spietata realizzazione di un antico e velleitario sogno delle frange più radicali, corteggiate da Éric Zemmour: la velleitaria coalizione delle destre tradizionali con Marine Le Pen, una manovra che stringerebbe “a tenaglia” e condannerebbe al terzo posto ogni possibile candidato macronista, Philippe compreso.
La posta in gioco? I bretoni direbbero “tenir la barre“, tenere il timone del campo avverso agli estremisti, dopo il cedimento della componente di sinistra della Macronie. Al momento, però, un paesaggio così rarefatto rende ardua anche solo la conquista della leadership. La partita è appena cominciata.