L’America ha dato il proprio sangue per il mondo islamico

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L’America ha dato il proprio sangue per il mondo islamico

07 Febbraio 2009

Ogni nuovo presidente si compiace con se stesso di essere colui il quale, nel modo più delicato e gentile, porterà il mondo a rinnovarsi. Tuttavia, quando Barack Obama nel suo discorso inaugurale si è rivolto ai musulmani dicendo: “Siamo in cerca, per il mondo musulmano, di una nuova soluzione fondata sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto”, il suo modo di esprimersi è stato inutilmente difensivo e apologetico.

È cosa nuova riconoscere gli interessi musulmani e mostrare rispetto verso il mondo islamico? Obama non solo la pensa così, ma lo ha pure detto ai milioni di spettatori che seguivano la sua intervista ad al-Arabiya, insistendo sulla necessità di “restaurare” lo “stesso rispetto e la stessa collaborazione che gli Stati Uniti avevano col mondo islamico sino a venti o trent’anni fa”.

Sbalorditivo. Nel corso degli ultimi vent’anni – il presunto inverno della nostra mancanza di rispetto nei confronti del mondo islamico – l’America non solo ha rispettato i musulmani, ha sanguinato per loro. Gli Stati Uniti si sono impegnati in cinque campagne militari, ognuna della quali ha implicato e ha avuto come risultato la liberazione di una popolazione musulmana: Bosnia, Kosovo, Kuwait, Afghanistan e Iraq.

I due interventi nei Balcani – come quello, fallito, del 1992-93 in Somalia per dare aiuto agli islamici africani che morivano di fame e nel corso del quale rimasero uccisi 43 americani – sono state operazioni umanitarie del più alto grado, non essendoci in ballo da quelle parti interessi strategici per gli Stati Uniti. In questi vent’anni l’America ha fatto più di qualunque altra nazione islamica o non islamica sulla faccia della terra per i musulmani che soffrono e che sono oppressi. Perché allora ci scusiamo?

E che dire poi di quella felice relazione tra Stati Uniti e mondo islamico che Obama immagina sia esistita “sino a venti o trent’anni fa” e che adesso è arrivato per restaurare? Trent’anni fa, il 1979 ha visto la più grande rottura dei nostri 233 anni di storia: la rivoluzione radicale islamica in Iran, la presa dell’ambasciata statunitense, i 14 mesi dell’America tenuta in ostaggio.

Cose, queste, venute appena qualche anno dopo quell’embargo del petrolio arabo che fece piombare gli Stati Uniti in una lunga e severa recessione. La quale a sua volta era stata preceduta dal rapimento e dall’uccisione a sangue freddo da parte dei terroristi arabi dell’ambasciatore americano in Sudan e del suo vice.

Per tacere poi del massacro nella caserma dei Marines del 1983 e degli innumerevoli attacchi alle ambasciate e agli impianti statunitensi in tutto il mondo durante quelli che Obama definisce i bei tempi andati delle relazioni tra Stati Uniti e mondo islamico.

Guardate, se Barack Obama vuole dire, come ha fatto ad al-Arabiya, di avere radici islamiche e familiari musulmani, di aver vissuto in un paese islamico (sottintendendo con questo una speciale affinità che lo mette in una posizione speciale per instaurare buoni rapporti) può anche andar bene. Ma è al tempo stesso falso e profondamente deleterio per questo paese tracciare una linea storica che divida l’America sotto Obama da un oscuro passato in cui l’Islam sarebbe stato demonizzato e non rispettato.

Come nell’impressionante ammonimento di Obama: “Non possiamo fare di tutt’erba un fascio e considerare una fede religiosa come il frutto della violenza che in nome di quella fede viene compiuta”. E dunque “noi” abbiamo fatto questo? Abbiamo diffamato l’Islam per colpa di una sparuta minoranza? George Bush ha fatto visita all’Islamic Center di Washington sei giorni dopo l’11 Settembre, mentre le rovine di Ground Zero erano ancora fumanti, per dichiarare che “l’Islam è pace”, per offrire amicizia e vicinanza ai musulmani, per ribadire il rispetto e la magnanimità degli americani nei loro confronti.

E l’America ha ascoltato. In questi sette anni dall’11 Settembre – sette anni durante i quali migliaia di musulmani si sono dati alla rivolta in tutto il mondo (col risultato di oltre cento persone uccise) per lavare l’onta di un fascio di vignette – non c’è stata negli Stati Uniti neanche una sollevazione anti-islamica tesa a vendicare il più grande massacro della storia americana. Al contrario. Nel periodo successivo abbiamo eletto il primo membro musulmano al Congresso e il nostro primo presidente di discendenza islamica.

“Il mio lavoro – afferma Obama – è di comunicare al popolo americano che il mondo islamico è pieno di persone straordinarie che semplicemente vogliono vivere la propria vita e vedere i propri figli averne una migliore”. È questo il suo lavoro? Il popolo americano la pensa forse diversamente? Crede forse Obama di star facendo con coraggio qualcosa che non era mai stata fatta prima? Ma anche George Bush, Condoleezza Rice e innumerevoli altri leader hanno dato miriadi di segnali del medesimo sentimento universalistico.

Ogni presidente ha il diritto di dipingere se stesso come qualcuno che sta inaugurando una nuova era di questo o di quello. Obama vuole perseguire nuovi legami con le nazioni musulmane attingendo alla propria identità personale e alle proprie relazioni. Bene. Ma quando il suo auto-incensarsi come il redentore dei rapporti tra Stati Uniti e mondo islamico lo porta a suggerire che l’America pre-Obama fosse irrispettosa, insensibile o indifferente nei confronti dei musulmani, Obama cade non soltanto in un’affermazione deliberatamente falsa ma mostra anche un gratuito disprezzo per il paese che ora ha il privilegio di guidare.

© Washington Post
Traduzione Andrea Di Nino