Lasciate lavorare i nostri Leonardo

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Lasciate lavorare i nostri Leonardo

Lasciate lavorare i nostri Leonardo

13 Ottobre 2022

“Meglio tenerle accese le centrali nucleari tedesche. Sono meno inquinanti del carbone e non si può fare a meno di questa fonte di energia. Naturalmente vanno incentivate anche le fonti alternative e quelle verdi. Ma l’atomo…”. Udite, udite. A pronunciare queste parole non è stato il ceo di un’azienda che trae profitti dall’uranio, né il paladino di un turbo-reattore americano. No, è stata Greta Thunberg, la vispa Teresa dell’ambiente mondiale, la giovane svedese che per anni ha puntato il dito contro i nostri comportamenti dissennati, il nostro consumismo, perfino la malsana voglia di farci una doccia calda.

Greta, che qualcuno voleva addirittura premio Nobel, intervistata da una tivù tedesca ha dovuto suggerire che nel 2023, data fissata per spegnere i reattori in Germania, i tedeschi dovranno andare avanti così. La giovane svedese era stata finora poco interessata alla realtà. Chiedeva a gran voce di ridurre in fretta le emissioni di Co2, costi quel che costi. Di fronte agli effetti collaterali della crisi energetica, senza rinunciare alla lotta al cambiamento climatico, ora la più famosa attivista dell’ambiente sembra aver cambiato idea sul diavolo nucleare.

Poco male. Qualcuno disse che essere ambientalisti da giovani è necessario, esserlo da vecchi dissennato. Cosa diranno ora i militanti di Fridays for future, i ragazzi che ogni venerdì bloccavano le città, facendo aumentare ovviamente l’inquinamento? Daranno seguito alle sue parole, le parole di una nuova Greta che ha invitato la Germania ad avere più coraggio sulle centrali nucleari e a lasciarle aperte ben oltre la proroga che il governo rosso-verde di Scholz, non senza critiche, aveva deciso? Eppure è così. E aggiunge: “Se ancora sono in funzione credo che sarebbe un errore spegnerle e passare al carbone”, ha affermato, intervenendo al talkshow di Sandra Maischberger, in onda sul canale ARD.

Si prevede presto un dibattito televisivo, qualche titolo sui giornali. Qualcuno la prenderà troppo in parola, mettendo in soffitta gli sforzi fondamentali per incentivare le rinnovabili, che invece saranno uno dei pilastri del futuro approvvigionamento, in nome dell’ecologia e della sostenibilità. Quello che è chiaro, probabilmente anche a Greta, è che le strade da percorrere sono molteplici e nessuna collide con l’altra.

Ma quanta strada dovrà percorrere l’Italia prima di poter contare anche su centrali nucleari? Tanta. Il referendum del 1987 le ha mandate in soffitta. Lo sciagurato pronunciamento, all’80 per cento, contro l’atomo, arrivava subito dopo la tragedia di Chernobyl, guarda caso sempre nei territori oggi devastati dalla guerra. L’impatto emotivo della tragedia era devastante. Chi in quel periodo lavorava nei giornali, ricorda bene le veline emesse dalle prefetture che invitavano gli organi di informazione a “non enfatizzare troppo i problemi”. Accadeva soprattutto quando qualcuno lanciava l’allarme sulla possibile contaminazione della verdura. I successivi governi hanno mandato ancora in soffitta l’idea delle centrali atomiche. E’ ancor più paradossale se si pensa che i primi studi sull’utilizzo dell’atomo e i primi progetti avanzati erano proprio italiani e risalivano agli anni Sessanta.

Il dibattito politico si è riaperto dopo l’impennata dei prezzi di gas naturale e petrolio negli anni tra il 2005 e il 2008 e ha condotto alla decisione del Governo Berlusconi IV di ripristinare in Italia una capacità nucleare a fini di elettro-generazione. Francia e Stati Uniti avevano in questo periodo intrapreso intensi contatti diplomatici con l’Italia proprio per favorire la costruzione di nuovi impianti nucleari in Italia, sia perché le due nazioni sono tra i principali esportatori di tecnologia nucleare, sia per allontanare l’Italia dalla dipendenza dal gas metano, tramite cui la Russia avrebbe potuto esercitare influenze sulla politica italiana. Sì, avete letto bene: influenze sulla politica italiana da parte dei Russi.

L’allora ministro dello Sviluppo Economico Claudio Scajola propose in tal senso di costruire dieci nuovi reattori con l’obiettivo di arrivare a una produzione di energia elettrica da nucleare in Italia pari al 25% del totale. La cosa, doveva però essere associata all’aumento fino al 25% di quella fornita da fonti rinnovabili. Avrebbe portato conseguentemente a un ridimensionamento al 50% di quella di origine fossile, il deprecato carbone. Lo scopo dichiarato di questa politica era di tagliare le emissioni di gas serra, ridurre la dipendenza energetica dall’estero e abbassare il costo dell’energia elettrica all’utente finale.

Il 15 luglio 2009 la stessa Enel dichiarò, per bocca del suo amministratore delegato Fulvio Conti e dello stesso Claudio Scajola, che non avrebbe chiesto incentivi o sussidi allo Stato ma che, per poter rassicurare gli investitori che dovevano anticipare i capitali necessari, sarebbe stata necessaria “una soglia minima garantita” nelle tariffe di vendita dell’energia elettrica, analoga quindi ai prezzi incentivati cosiddetti CIP6 pagati nelle bollette.

Che cosa è stato fatto da allora? Niente. Ed eccoci qui con le bollette impazzite e la guerra che incombe, il gasdotto interrotto, un inverno da incubo. Bastava guardarsi intorno. Secondo i dati dell’Aiea, agenzia che si occupa dell’uso pacifico del nucleare, sono attivi 450 reattori nucleari nei vari continenti. 92 negli Usa, 56 nella confinante Francia, 55 in Cina che sta costruendone altri 18, 37 in Russia. L’India ne ha in funzione 22 e vuole costruirne altri 6. A favore dell’atomo in Europa sono i Paesi dell’Est, con la Polonia che sta costruendo il primo impianto, Bulgaria Ungheria e Repubblica Ceca.

In Francia, tanto per capire, la gestione dell’intero settore, dalle miniere di uranio alla costruzione delle centrali, rappresenta la più grande industria nazionale e occupa 200 mila persone. Ma metà dei suoi 56 reattori sono spenti, molti in attesa di rifornimento di combustibile. Macron va sul nucleare, ma promette anche parchi eolici e solari. Però ha stanziato 50 miliardi di euro per costruire 6 nuove centrali della cosiddetta terza generazione. Si può fare di meglio. E qui torna la parola rinnovabili.

Le centrali della quarta generazione, seppure in fase sperimentale, sembrano destinati a rivoluzionare il settore. Uno dei principali obiettivi che si pongono è se non eliminare, almeno ridurre la produzione di scorie radioattive. E ancora una volta la palla è in mano all’Italia, alla creativa Italia. Il novello Leonardo si chiama Stefano Buono, nome omen. E’ un fisico fondatore nel 2021 di NewCleo, start up con sede a Londra, centro di sviluppo a Torino e succursale in Francia. In collaborazione con Enea punta alla realizzazione di reattori avanzati capaci di smaltire buona parte delle scorie e reimmetterle nel ciclo di produzione dell’energia, generando così poche scorie residue.

Al progetto che ha raccolto 400 milioni di euro, lavorano un centinaio di fisici e ingegneri. Il futuro reattore andrà a Mox, un combustibile formato da ossidi di plutonio e uranio impoverito. Sarà in sostanza un combustibile circolare e sarà necessario ricorrere sempre meno a escavazioni minerarie. Secondo i calcoli si andrà avanti per secoli, bruciando gli scarti delle attuali centrali atomiche. Sarà raffreddato a piombo, metallo che porterà allo spegnimento automatico in caso di radiazioni non controllate.

L’unico genio itailano in azione? No, leggete. E’ in arrivo la più grande rivoluzione degli ultimi 50 anni: le centrali a torio. E’ un metallo debolmente radioattivo, presente in grandi quantità in rocce e terreni, pari a 4 volte le riserve di uranio. Il torio è stato scoperto nel 1828 dal chimico svedese Berzelius che l’ha infatti chiamato così in onore del dio del tuono Thor. E’ un elemento fertile, non fissile come l’uranio. Idea svedese dunque? No, ripetiamo, ancora italiana e in particolare del Nobel Carlo Rubbia che ne parlò già nel 1990. Nemo profeta in patria, però. Tanto che gli studi più avanzati sulle centrali a torio sono portate avanti dalla Cina, specializzata in “razzia” di terre rare, di cui il torio è un sotto-prodotto. A Wubei, nel deserto del Gobi, è già in atto una sperimentazione che prevede anche l’uso di sali fusi che ostacolano reazioni a catena. Col che la Cina risolverebbe i suoi problemi energetici, raggiungendo anche obiettivi di miglioramento climatico.

Al contrario di Fukushima che usa per raffreddarsi l’acqua marina, con i problemi che i giapponesi hanno dovuto affrontare durante il recente tsunami, può sorgere in qualunque luogo. Ultima annotazione che farà piacere a Greta e ai pacifisti: dal torio non si estrae plutonio. Quindi sarà impossibile produrre ordigni nucleari. La morale di questa analisi è una sola: con l’ideologia non ci si scalda e non si mandano avanti le industrie. Le chiacchiere vanno bene nel talk, non in fisica. Siamo provati, eppure l’Italia può farcela con il suo genio, la sua creatività, a patto di programmare e percorrere ogni strada in modo deciso. Di Leonardo in casa ne abbiamo tanti. Lasciateli lavorare.