L’Europa dei sordi non sentirà il NO degli irlandesi

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L’Europa dei sordi non sentirà il NO degli irlandesi

16 Giugno 2008

Quando venerdì, a pomeriggio inoltrato, lo spoglio delle schede del referendum irlandese è terminato, sarebbe stato possibile avanzare diverse considerazioni. Anzitutto, si sarebbe potuto opportunamente evidenziare, ricorrendo ad un’espressione fin troppo abusata quando si tratta di votare, "la grande prova di democrazia" degli irlandesi, unici ad essere chiamati a esprimersi su un trattato che avrebbe condizionato le loro vite negli anni a venire. Invece, la linea ufficiale adottata nelle prime ore, quella politicamente corretta, è stata quella del sacrilegio. L’Irlanda ha detto no all’Europa: apriti cielo, è reato di lesa maestà. A questo punto, sono partite le scomuniche.

La critica che ha avuto più successo è stata quella secondo cui, banalizzando, non possiamo lasciare in mano il destino del progetto europeo ad 862.000 bevitori di birra che non leggono i trattati. La versione raffinata di questa argomentazione prevede che non si possano affidare alla decisione democratica temi che non si conoscono e di cui sono imprevedibili le conseguenze. Sarebbe troppo facile rispondere che, anche in occasione delle normali consultazioni elettorali, si vota a scatola chiusa a favore di un pacchetto di politiche di cui non sono immediatamente note le conseguenze. Quanto alla conoscenza o meno della posta in gioco, cioè del trattato, affermare l’inadeguatezza del referendum in questa situazione potrebbe essere corretto solo se, parallelamente, sostenessimo che, in tutte le altre elezioni o nei referendum, l’elettorato dispone di una conoscenza dettagliata delle tematiche trattate. Sarebbe una tesi molto difficile da dimostrare.

L’altra accusa mossa all’Irlanda è stata di aver peccato di ingratitudine, di aver fatto free riding sui finanziamenti della comunità europea che avrebbero acceso la crescita economica e poi di essersi tirata indietro quando si trattava di aprire il portafoglio. A prescindere dal fatto che un’unione politica il cui appeal si basa esclusivamente sull’acquisto del consenso tramite la distribuzione di fondi dimostra solo di essere una costruzione senza fondamenta, obiettare che lo sviluppo dell’economia irlandese sarebbe legato agli aiuti comunitari costituisce un’asserzione piuttosto friabile. In un saggio pubblicato sul Cato Journal, Benjamin Powell ha provato ad indagare le ragioni del "miracolo economico irlandese" ed è giunto alla conclusione che la causa delle fortune della "tigre celtica" sia da ricercarsi nelle politiche liberiste introdotte verso la fine degli anni Ottanta dopo l’elezione di Charles Haughey. Inoltre, "se i sussidi fossero la causa più importante della crescita irlandese, quest’ultima dovrebbe risultare più elevata negli anni in cui l’Irlanda ha ottenuto più fondi," ma, ricorda ancora Powell, "essa ha iniziato a ricevere sussidi dopo essere entrata a far parte della comunità europea nel 1973. Le entrate nette provenienti dall’UE hanno rappresentato, in media, il 3% del Prodotto Interno Lordo nel periodo di rapida crescita (1995-2000), ma durante il periodo di rallentamento economico (1973-1986) hanno costituito il 4% del PIL." Insomma, gli irlandesi dovrebbero davvero poco all’Unione Europea. 

La reazione stizzita dei professionisti dell’europeismo, però, assumerà molto probabilmente la forma di una moderata indifferenza. Per Denis MacShane, "la decisione popolare ha causato un modesto mal di testa, ma le cose non sono cambiate granché." La spedizione punitiva dell’Unione Europea nei confronti della piccola isola – svela il Guardian – verosimilmente implicherà l’accelerazione del processo di ratifica da parte dei paesi che debbono ancora votare sul trattato, per presentare in seguito un blocco compatto, allo scopo di emarginare politicamente e, forse, anche giuridicamente l’Irlanda. Contemporaneamente, si percorrerà anche l’altra strada, quella, cioè, di prendere per sfinimento gli irlandesi costringendoli a rivotare sul testo, al massimo nella prima metà del prossimo anno. 

Certo, fa sorridere che l’UE, che ha tentato di presentarsi agli occhi dei cittadini come una collezione di democrazie, mostri una tale reticenza a lasciare spazio all’opinione popolare. La scollatura fra quest’ultima e Bruxelles non è certamente una novità. Tuttavia, nonostante gli infiniti proclami sulla necessità di ascoltare maggiormente gli europei, l’Unione Europea ha scelto sempre di andare nella direzione opposta. 

Va riconosciuto che, fino ad ora, le proposte dei più euroscettici si sono rivelate spesso confuse o, al più, rischiose. L’ "Europa dei popoli" o l’ "Europa sociale" che piacciono tanto, rispettivamente, a certa destra e a certa sinistra, hanno come minimo comun denominatore l’anticapitalismo e lo statalismo più muscolari. Alternative decisamente più liberali sarebbero quelle di mettere in competizione gli stati europei, i loro sistemi fiscali e giuridici oppure di creare semplicemente una zona di libero scambio europea, senza organismi deputati a dirigere le politiche commerciali dei singoli stati membri. Anche questa volta, però, l’UE farà finta di non sentire. La sua posizione è chiara: si tira dritto, che vi piaccia o meno. Marciamo spediti, verso il sol dell’avvenire.