Libia, perché la NATO non vuole vincere

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Libia, perché la NATO non vuole vincere

23 Aprile 2011

Leggendo i numerosissimi articoli riguardanti la “guerra di Libia” mi hanno colpito soprattutto due cose. La prima è la convinzione che la coalizione internazionale stia facendo fatica a battere Gheddafi e il suo esercito. La seconda è che lo “stallo”, che pare essersi creato, non riuscendo nessuna delle due parti, Gheddafi e ribelli, a prevalere, rappresenti chissà quale deludente sorpresa per NATO e compagnia.

In realtà, fin dal principio, l’intervento ha considerato la “vittoria” come la seconda peggiore opzione. Di peggio esisterebbe solo la soppressione della ribellione da parte del rais.

Gli interventi in Afghanistan e Irak hanno impartito una dura lezione a questo proposito. E’ facile battere i nemici e installare nuovi governanti, ma poi si deve fare i conti con i “perdenti” che, ben difficilmente, si adattano al loro nuovo ruolo.

In Afghanistan i talebani, in Irak i membri del Baath di Saddam Hussein e la minoranza sunnita, hanno rappresentato il fulcro della resistenza al nuovo ordine proprio in quanto passati dal controllo del potere a nullità.

Questo fatto è oggi ben presente nella coalizione internazionale che amministra la “no-fly zone”.

Non si desidera spazzare via Gheddafi e i suoi per consegnare il potere nelle mani dei ribelli di Bengasi. Il miglior modo di garantire un futuro tranquillo alla Libia è quello di non avere vincitori e vinti, ma piuttosto un accordo nazionale che garantisca a chi milita in entrambi i campi e in ogni tribù la sua fetta di potere.

Del resto, l’accentramento del potere in maniera eccessiva nelle mani della tribù gheddafiana è uno dei motivi che hanno reso forte la rivolta. Un problema che tocca anche la Siria, dove la minoranza alawita comanda sulla grande maggioranza della popolazione che non lo è, e ne vediamo proprio ora gli effetti.

Questo naturalmente richiede un “sacrificio agli dei”, per dare un segnale forte alla popolazione e giustificare l’accordo, e il sacrificio lo devono fare Gheddafi e famiglia andandosene.

Muovendosi in base a questa logica prima si è fermato l’esercito libico alle porte di Bengasi per salvare la rivolta, e successivamente lo si è cacciato da Ajdabiya, porta strategica verso le tre grandi strade dell’est. A quel punto, come sappiamo, i ribelli hanno cominciato una veloce cavalcata senza freni, con i nemici in rotta fino a Sirte.

Volendo si potevano spazzare via con decisi bombardamenti i soldatini del rais che, posti a difesa di Sirte, costituivano l’ultimo baluardo di resistenza, eliminato il quale i ribelli sarebbero arrivati in carrozza fino a Misurata, riducendo Gheddafi al controllo di Tripoli e dintorni.

Questo avrebbe verosimilmente portato al collasso dell’esercito e del regime con un’ondata di diserzioni e passaggi ai ribelli da parte dell’esercito regolare. Per questo motivo l’intervento non c’è stato e l’armata brancaleone di Bengasi ha dovuto ripiegare in fretta furia.

La situazione di stallo che si è bene o male creata è l’ideale per la NATO. Si prosegue la lenta distruzione dell’avversario, dandogli tempo di riflettere e di arrendersi all’evidenza di un’inevitabile sconfitta, senza rafforzare troppo i ribelli, che, altrimenti, pretenderebbero una “vittoria piena” data dalla distruzione del regime.

Tutto si muove alla ricerca di un equilibrio che, lentamente ma progressivamente, volge la situazione sempre più a sfavore del dittatore. Una specie di partita a scacchi, il cui esito programmato è una pace tra fazioni politiche e tribù e un esilio per il “padre della rivoluzione”.