Mediazione e arbitrato: due soluzioni innovative contro la malagiustizia
30 Luglio 2008
Con il suo recente intervento sul rapporto tra la lentezza della magistratura e la crisi economica, Giuseppe Pennisi ha richiamato l’attenzione su una questione veramente cruciale per il nostro futuro. Il disastro italiano è figlio infatti di una progressiva crisi delle istituzioni, così che se le nostre imprese arrancano non è tanto per un difetto dei responsabili di marketing o per una scarsa qualità dei nostri tecnici impegnati a fondere tondini o costruire calzature, ma invece perché il quadro giuridico entro cui si colloca il sistema produttivo italiano fa acqua da tutte le parti.
Pennisi ha ragione quando ricorda i terribili ritardi di sentenze che si sarebbe dovuto pronunciare decenni fa, poiché una giustizia tardiva è una giustizia negata. Com’è ben noto, se l’economia non è completamente crollata e se ancora oggi vi sono fornitori corretti e partner che mantengono la parola data, ciò non è certo dovuto al timore di essere portati in tribunale, ma invece perché non si riesce a stare sul mercato se viene meno la propria reputazione. In altre parole, nell’Italia di oggi non è certo una sanzione di tipo giuridico (la condanna espressa da un giudice) a spingere le imprese a comportarsi correttamente, ma è semmai una sanzione di tipo sociale (la riprovazione generale, il discredito, il boicottaggio). L’assenza di punizioni formali per quanti non rispettano le regole del gioco, quanto meno in tempi ragionevoli, finisce però per danneggiare oltre modo la nostra economia.
Qualche soluzione vi sarebbe. Già nella Ricchezza delle nazioni, Adam Smith sottolineava come il prestigio della giustizia britannica fosse in larga misura una conseguenza della facilità con cui, a quei tempi, chiunque poteva scegliere il tribunale civile dal quale farsi giudicare: tanto più che le corti si finanziavano grazie alla riscossione delle spese processuali. In tal modo, ogni giudice aveva un vero incentivo a costruirsi una fama di correttezza, equità e incorruttibilità, ed era anche stimolato a chiudere in tempi brevi ogni controversia.
Nel mondo di oggi, la soluzione può venire dal diffondersi delle cosiddette ADR (Alternative Disputes Resolutions, che in italiano si traduce con “risoluzioni alternative delle controversie”), e quindi della mediazione e dell’arbitrato. Il secondo è un processo di tipo privato, in cui i due attori decidono di accettare come vincolante la decisione del giudice-arbitro che essi hanno scelto consensualmente, mentre la prima è una pratica che cerca di evitare lo stesso giudizio, sforzandosi di negoziare le differenti esigenze e trovare un compromesso in grado di soddisfare tutti.
In America – dove queste realtà negli ultimi decenni hanno trovato una grande accoglienza tanto nel mondo degli affari quanto all’interno dei professionisti del diritto – arbitrato e mediazione rappresentano ormai due pilastri fondamentali della cultura e della pratica giuridiche. Purtroppo da noi (dove pure ci sarebbe un grande bisogno di liberare gli uffici giudiziari dal numero abnorme di controversie irrisolte) c’è un connubbio di fatto tra l’ignoranza e la malafede, tra il persistere di un provincialismo che tende a perpetuare l’eterno ieri dei tribunali di provincia e il corporativismo di quanti sanno bene che aprire a soluzioni privatistiche nel campo della giustizia metterebbe in luce quanto sia scarsa la qualità della magistratura nazionale.
La conseguenza è che il pur più che meritevole lavoro di quanti si battono per innovare la giustizia (basti pensare agli importanti lavori di Giovanni Cosi proprio sull’ADR) rimane spesso quasi sconosciuto ai più. È però egualmente vero che la salvezza del nostro sistema legale non è legata soltanto al superamento delle procedure di una giustizia lenta e farragginosa. Purtroppo, la radice del male è più profonda, dal momento che il trionfo quasi del tutto coevo del legalismo positivista e dell’egualitarismo socialista ha finito per modificare nella sua essenza il diritto e la sua stessa funzione sociale.
Perché mentre l’ordine giuridico liberale, pur tra mille deviazioni ed errori, si proponeva essenzialmente di tutelare l’individuo e le sue proprietà di fronte al rischio di aggressioni o truffe, nelle società odierne la vecchia libertà “negativa” non basta più. Lo Stato vuole dare all’uomo la felicità, o almeno quella sua versione un po’ parodistica che va sotto il nome di “welfare” (benessere). Se Karl Marx ci ha insegnato che la libertà di mercato non sarebbe altro che la possibilità per gli sfruttatori di fare i soldi sulla pelle dei proletari, è evidente che i suoi allievi odierni (del tutto ignari del Capitale, ma pervasi da ogni sorta di sociologismo) vedono nel diritto un apparato impegnato a proteggerci di fronte alle imprese e a limitare la nostra libertà contrattuale. Solo otto anni fa, uno tra gli ultimi parti dello statalismo imperante, l’Antitrust, è giunto a condannare 38 assicurazioni in quanto “colpevoli” di essersi scambiate informazioni (i prezzi dei prodotti, nello specifico) e quindi di aver dato vita ad una qualche forma di integrazione tra le loro iniziative.
La cosa non deve stupire, perché ormai le norme positive non incarnano più il tentativo (sempre imperfetto e perfettibile) di proteggere i diritti naturali dei singoli e in primo luogo la proprietà, ma sono invece un duttile quanto potentissimo strumento nelle mani del ceto dirigente e dei suoi consiglieri: quell’arma grazie alla quale l’umanità può essere affrancata dalla barbarie, dalle superstizioni e anche da ogni sorta di meschinità, in modo tale da poter progressivamente “incivilirsi”.
Riflettere sulla natura dell’ordine giuridico e sulla necessità di superare la cultura positivistica che ha fatto del diritto nient’altro che la volontà del ceto politico (secondo l’antica lezione di Thomas Hobbes, per il quale non la verità, ma l’autorità fa il diritto) significa anche scoprire la ragione vera del moltiplicarsi di norme, leggi, direttive. Nel Leviatano socialista dei nostri tempi, non è sorprendente che gli italiani debbano obbedire a più di 200 mila leggi, quasi sempre ignorate e trascurate. Ma in un tale ginepraio di regole è difficile immaginare una giustizia ordinata, equa, rapida, amministrata con ragionevolezza e buon senso.
Pennisi ha quindi perfettamente ragione quando rileva (anche sulla scorta degli studi di Williamson e North) che il problema economico è in larga misura un problema giuridico. Alla stessa conclusione è arrivato pure Hernando de Soto, che nei suoi studi sul sottosviluppo ha evidenziato come il discrimine principale tra America del Nord e del Sud, ad esempio, stia proprio nella diversa concezione del diritto.
Proprio per tale ragione quando qualche anno fa, con un paio di amici, si è deciso di dar vita ad un think-tank che si sforzasse di portare al centro del dibattito economico le tesi del liberalismo classico, la scelta è stata di puntare su un grande giurista italiano, Bruno Leoni, e l’eccezionale statura intellettuale di quell’uomo non è stato l’unico motivo alla base di tale scelta.
È invece proprio quel tipo di considerazione sul rapporto tra diritto ed economia, in un certo senso, che ci ha condotto fino a Leoni e ci ha convinto che soltanto se sapremo riscoprire il diritto, e in primo luogo se torneremo a rispettare davvero il diritto di proprietà, potremo uscire dalle secche del parassitismo e del dirigismo statalista.