Nell’affaire Montecarlo c’è qualche sconto verso la terza carica dello Stato

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Nell’affaire Montecarlo c’è qualche sconto verso la terza carica dello Stato

03 Novembre 2010

Alla luce dalla recente iniziativa della procura di Roma in favore di Gianfranco Fini, le strategie politiche contro l’indipendenza della magistratura, quotidianamente denunciate dalla sinistra, sembrano destinate allo scacco. I magistrati non si lasciano né condizionare, né intimidire, e proseguono con adamantina fermezza sulla via costituzionale della “soggezione soltanto alla legge”, malgrado il principio di cui all’art.101 Cost. si riferisca ai soli “giudici”, ad esclusione dei magistrati dell’accusa.

L’ufficio giudiziario romano, tuttavia, non aveva molte ragioni per esultare, dopo la decisione di rinunciare all’esercizio dell’azione penale nei confronti del presidente della Camera, indagato nell’affaire Montecarlo. In suo soccorso  – ironia della sorte – sta inavvertitamente muovendo compatta la stampa (acriticamente) schierata sul fronte destro dello scacchiere politico nazionale. I magistrati titolari del procedimento ringraziano. Commossi.

L’obiezione (ossessivamente) ricorrente investe la conduzione delle indagini, giudicata omissiva e parziale, inadeguata e contraddittoria. Perché indagare sul prezzo di vendita dell’immobile, se questo profilo non compete al giudice penale, bensì a quello civile? Perché non è stato escusso il cognato del presidente Fini? Perché non sono state convocate altre persone informate sui fatti? Interrogativi siffatti, in virtù (sic) della loro indole meccanica e polemica, non mordono sulla sostanza reale delle cose, risolvendosi in una grottesca fornitura d’acqua preziosa e insperata a tutto vantaggio del mulino giudiziario. Ad un’analisi minimamente attenta, auspicabilmente scevra da ogni rozzezza, essi sono destinati a rivelarsi pateticamente fuori asse e fuori bersaglio. Proviamo, allora, a sciogliere, con la necessaria chiarezza l’enigma, solo apparente, di queste obiezioni.

Entro l’ordinamento giuridico democratico, ai magistrati del pubblico ministero, titolari dell’azione penale, compete l’obbligo di scandagliare ogni fatto che costituisca, se anche nel modo più astratto, notizia di reato, al fine di verificarne la corrispondenza con una o più fattispecie giuridiche, per le “determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”. Delitti e contravvenzioni, quali previsti dalla legge penale sostanziale. Ora, può essere utile ricordare ai non addetti, oltre che a qualche improbabile giornalista, che la struttura di ciascuna figura di reato esibisce uno o più elementi che la costituiscono. Sicché, l’investigazione ritualmente si orienta all’esame della condotta del soggetto attivo del reato, in riferimento a tutti gli elementi costitutivi della norma incriminatrice. Ne consegue che, qualora il fatto non corrisponda a tutti gli elementi in rubrica, esso, pur sussistendo, “non costituisce reato”.

Nella regiudicanda che occupa e che sembra appassionare determinati settori della stampa, il dato da acclarare preliminarmente, in riferimento al delitto di cui all’art.640 CP (“truffa”), era l’occorrenza o meno di un “profitto” a vantaggio di Fini o di “altri”, in “danno” del partito. Perché al partito – associazione-compagine di persone accomunate da una finalità politica – non già alla persona del suo leader, l’immobile monegasco era stato lasciato in eredità. “Per la buona causa”. Del partito. Non dell’interesse di Fini. Giocoforza, dunque, innanzitutto accertare, con la più scrupolosa precisione, se quel bene fosse stato venduto a un prezzo congruo, oppure se, al contrario, la negoziazione avesse favorito qualcuno – se parenti o estranei, come la società offshore, non rileva – con danno evidente del partito.

Com’è noto, gli inquirenti hanno puntualmente verificato l’incongruità del prezzo di vendita. Rimanevano, altresì, da individuare in contesto eventuali azioni dolose – leggi: la frode tipica della “truffa” – nella condotta della persona sottoposta a indagini, l’intenzione ossia  fraudolenta, indispensabile ai fini del delitto de quo. In assenza della quale, il dato della svendita, in sé e per sé, non vale a “costituire reato”, rientrando, come puro danno materiale e patrimoniale, nella competenza (eventuale) del giudice civile. Questo il nodo critico, vero ed essenziale, della questione, al di là della chiacchiera impotente, cieca e settaria.

Al termine dell’indagine preliminare, i magistrati ritengono di potere escludere la sussistenza di azioni fraudolente: l’indagato ha ‘semplicemente’ svenduto una casa, senza tuttavia usare, in danno del partito, gli “artifizi” o “raggiri” richiesti dalla norma. Così è, se vi pare.

D’altronde, Fini ha sempre sostenuto di essere all’oscuro dei movimenti del cognato e, in mancanza della prova contraria, i magistrati gli hanno creduto. Né dagli atti emergono evidenze diverse. Di converso, è pressoché impossibile raggiungere la prova che Fini avesse svenduto l’appartamento al Tulliani, sotto la copertura della società offshore, o che, comunque, fosse a conoscenza che il cognato ne era/è il proprietario o l’affittuario. Dubbi, dello stesso Fini, e pur legittimi sospetti diffusi, lasciano il tempo che trovano, perché ininfluenti ai fini della prova. Il vero è che, in mancanza di riscontri oggettivi, tracce documentali e non, soltanto una confessione del Tulliani potrebbe scardinare e svelare l’ipotizzato plot truffaldino. Inimmaginabile.

Ciò vale anche nell’ipotesi in cui si dimostrasse che Tulliani è il proprietario della casa: egli potrebbe sempre sostenere di avere ingannato il cognato in fase d’intermediazione. Fini, di colpo e di conseguenza, verrebbe ad assumere la qualità di parte lesa nel medesimo procedimento per truffa nel quale oggi figura in veste d’indagato. La sua stessa eventuale presenza a Montecarlo, durante le opere di ristrutturazione, proverebbe unicamente che era a conoscenza del fatto che vi ci abitava il Tulliani, non che gliela aveva venduta! Ne uscirebbe sbugiardato, con conseguente macchia politica, non incriminato. Stiamo, perciò, utilmente ai fatti certi, anziché recriminare sulle strategie investigative attrezzate dai magistrati, comunque e sempre opinabili, e per questo sottoposte al vaglio di un giudice terzo.

Come abbiamo sottolineato nel precedente articolo, il “raggiro” – con univocità tematizzato dalla dottrina e dalla giurisprudenza – sembra da escludere, in quanto che nessun “discorso ingannatore” Fini risulta avere rivolto a chicchessia. Nulla, almeno, sarebbe emerso nell’orizzonte investigativo, anche in ragione della specifica dinamica degli eventi.

Veniamo, invece, all’”artifizio”, tenendoci accuratamente al riparo dal tifo e dalla faziosità, affidandoci soltanto al combinato disposto di dottrina e giurisprudenza, asse strategico dell’universo giuridico. Anche qui, esse ci confortano, aiutandoci a comprendere e gettando sulla norma in esame una fascio di luce.

L’insegnamento è lineare e preciso. L’”artifizio” non consiste in elaborate messe in scena, in rappresentazioni teatrali più o meno bene recitate, o in quelle performance brillanti e ingannevoli che sono tipiche di un’accezione artistico-letteraria. In ambito giuridico, esso consiste e s’identifica anche nel silenzio, nella reticenza, nella simulazione o dissimulazione. Ossia, nel fare apparire una situazione diversa da quella che essa è realmente. Vediamo.

Il presidente Fini ha informato il partito delle più vantaggiose offerte ricevute per la casa, con preciso riferimento al suo più elevato valore di mercato? Perché, se, come sembra acclarato, si è limitato a svenderla in silenzio, procurando un “ingiusto profitto” a terzi, chiunque essi siano, con “danno” ai consociati-partito e alla “buona causa”, quel silenzio, quella dissimulazione, quel fare apparire la situazione diversa da quella effettuale, integrano, in modo pieno e incontrovertibile, l’elemento dell’”artifizio” come previsto dalla fattispecie legale. Va da sé che, sotto questo profilo, diviene irrilevante stabilire se il beneficiario ultimo sia il cognato, come ipotetico proprietario o intermediario-affittuario. E’, infatti, sufficiente che taluno, vedi caso una società (opportunamente) offshore, ne abbia tratto vantaggio, quali che ne siano i motivi: la giurisprudenza non ne postula il rintraccio. Un punto, però, non deve sfuggire: il censimento degli “utilizzatori finali”, nel Belpaese, evidentemente è tutt’altro che completo.

Bisogna, pertanto, dare doverosamente atto alla procura romana di avere acquisito i materiali investigativi necessari e sufficienti per promuovere l’azione penale nei confronti dell’odierno indagato. Senza riprovevoli sconti di sorta verso la terza carica dello Stato.

E sono – per l’appunto – questi i motivi che rendono inesplicabile e misterioso alquanto il comportamento dei PM, incoerenti e distratti al punto di chiedere l’archiviazione degli atti, anziché agire in conformità alle risultanze investigative medesime. Ma, se una confusione siffatta non può che lasciare vagamente interdetti, poiché l’archiviazione è l’antipode dell’azione, non è inverosimile supporre che l’estenuante lavoro investigativo li abbia a tal punto annebbiati, da arrestarli, stremati, sulla soglia dell’imputazione. Ancora uno sforzo ed era fatta!

Eppure, una ulteriore scelta meritoria dei magistrati è stata quella di riconoscere la sicura legittimità della querela d’impulso, in quanto iniziativa di parte lesa e/o danneggiata. Il che implica il manifesto riconoscimento di diritti e interessi in capo a terzi, a riprova che Fini non era, né poteva essere, il proprietario dell’immobile – né del partito! – nel qual caso, ovviamente, quella casa egli avrebbe potuto non solo svendere, ma finanche regalare. Se, d’altro canto, e in ipotesi controfattuale, egli ne fosse stato il proprietario, o ne avesse potuto comunque disporre ad libitum, ciò non poteva non apparire palese già ab origine. Dunque, non avrebbero avuto alcun senso investigazioni incentrate sul valore reale dell’immobile, per approdare all’asserita “insussistenza di azioni fraudolente” su cui motiva la domanda di archiviazione. Che, poi, il pubblico ministero, di fatto, non consideri l’indagato proprietario di alcunché, risulta limpidamente provato anche dalla circostanza che, in conclusione di procedura, egli rinvia le parti davanti al giudice civile. Dovendosi ragionevolmente escludere un’intenzione burlesca, cioè che il PM scherzosamente immagini un’azione civile del Fini – ove mai unico danneggiato – contro se stesso! 

Se, insomma, vi sono – come esplicitamente la procura riconosce – offesi/danneggiati dal reato mediante il segnalato artifizio, allora e conseguentemente si versa in tema di truffa, provata per tabulas. Pacificamente.

Sia consentita, in chiusura, un’osservazione (forse) peregrina. Il premier Berlusconi incappa in un’aspra reprimenda politica e morale, per avere inopinatamente cercato d’interferire con i compiti d’ufficio della questura di Milano, allo scopo di salvaguardare una ragazza minorenne. A giudizio di molti, un errore, anzi un abuso, imperdonabile, anche per la richiesta di affidarla alla sua igienista dentale. Certamente, che si mostrasse tanto preoccupato per la dentatura della giovane e colpevolmente incurante della sua anima, è inaccettabile.

L’anima, invece e per fortuna, sta a cuore all’opposizione, interna ed esterna alla maggioranza di governo, lungo un arco che ormai si estende da Fini a Vendola. L’anima degli individui, certo, ma anche e soprattutto lo spirito del ‘sociale’, che si nutre della reciproca coniugazione di diritto ed etica. Preferibilmente con dimora – e “buona causa” – a Montecarlo. Quell’anima negli occhi di una ragazza che i media non sono stati in grado di mostrare, a causa della sua minore età, che li ha costretti a ripiegare intensamente, e non senza sofferenza, sulla bocca e sul seno. Rimaniamo, così, in sensuale compagnia di queste immagini, nella fervida attesa delle prossime geremiadi progressiste sul miserando destino del corpo delle donne sotto il regime B.

Nel clamore assordante di queste ore, non sembri inopportuno richiamarsi al giudizio di un saggio moralista del ‘700, il marchese di Vauvenargues: “Ogni ingiustizia ci offende, quando non ci procura alcun profitto”. Il cavaliere, per parte sua, non demorde e confessa pubblicamente di muoversi costantemente dentro irresistibili pulsioni di coerenza con se stesso, tanto della parte migliore, quanto di quella peggiore della sua personalità, indubbiamente controversa. E controvertibile.

Senza ipocrisie, né infingimenti, ma anche – aggiungiamo – senza inopportune rivendicazioni d’orgoglio. Purtroppo, se è vero che “la coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive d’immaginazione”, argomenta Oscar Wilde, allora e certamente il cavaliere è in gran debito d’immaginazione.

In compenso, e per nostro conforto, molti uomini dello Stato, magistrati e non, sembrano ben più dotati  di…immaginazione. In tema di abusi. E di (in)coerenza. Esageratamente.